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La prima luce

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VOTO: 7

“Rapimento” senza riscatto

Quello della disgregazione è un tema che al cinema, in particolare in quello made in Italy, è tra i più gettonati (vedi il recente Nessuno si salva da solo di Castellitto). Il suo ricorrere insistentemente anno dopo anno è specchio che riflette i nostri tempi, che vedono sempre più nuclei familiari sciogliersi come neve al sole a causa della fragilità dei rapporti e della crisi imperante. Dati alla mano, le separazioni e i divorzi sono cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi decenni. A pagare il prezzo più alto non sono però le coppie di turno, ma ciò che è nato delle loro unioni, vale a dire i figli. Sono loro a soffrire, a essere le vere vittime di quelle che, nella “migliori” delle ipotesi, possono essere delle divisioni consensuali, oppure al contrario diventare autentiche “guerre intestine” che trasformano la prole coinvolta in pacchi da spostare, “oggetti” contesi o in qualcuno che assomiglia molto a un “ostaggio”. Mateo, il piccolo co-protagonista della nuova pellicola diretta da Vincenzo Marra dal titolo La prima luce, è uno di loro. Ha otto anni, vive a Bari con la madre Martina e il padre Marco, giovane e cinico avvocato rampante. Martina, latino americana, si è trasferita in Italia dopo aver conosciuto Marco. La loro storia è ormai alla fine. Lei vuole tornare a vivere nel suo paese con Mateo ma questa scelta escluderebbe Marco e lui non glielo consente, troppo profondo è l’amore e il legame con suo figlio. Dopo un periodo lacerante, Martina scappa insieme a Mateo e si reca nel suo paese facendo perdere ogni traccia. Il tempo per Marco inizia a scorrere più lento, non ha nessuna notizia di suo figlio e dopo un periodo di angoscia e sbandamento decide di andare a cercarlo.
La terza fatica dietro la macchina da presa in un lungometraggio di finzione per il regista partenopeo arriva a distanza di otto anni dal pessimo L’ora di punta e a undici dal folgorante esordio Vento di terra. Selezionato nel concorso delle Giornate degli Autori alla 72esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia e nelle sale con BIM a partire dal 24 settembre, il film affronta il tema di petto e in maniera viscerale, con la conoscenza e l’approccio alla materia di chi una simile e dolorosa esperienza l’ha vissuto sulla propria pelle la sofferenza che solo l’allontanamento forzato di un figlio può provocare, a maggior ragione se le distanze diventano oceaniche. Per raccontare questa storia, infatti, Marra si muove sull’asse Bari-Santiago del Cile percorrendo la bellezza di 15.000 km, quella che separa Marco da Mateo. C’è moltissimo del regista e delle sue vicende personali, ma non entreremo nel dettaglio per non invadere la privacy o mancare di rispetto. Questo carattere autobiografico nel plot, però, fa de La prima luce un film sentito ed epidermico, basato su momenti di vita vissuta che non sono scaturiti dall’immaginario o dalle voci di piazza (i media hanno spettacolarizzato in moltissimi occasioni i casi saltati alla cronaca), ma dall’aver rielaborato cinematograficamente una serie di emozioni, eventi e ricordi del tutto personali. Ciò ha permesso al regista, sin dalla fase di scrittura, di non incappare nei facili pietismi e nella commiserazione a buon mercato, per fare posto piuttosto a uno sguardo sincero, sentito e delicato. Marra maneggia con cura storia e personaggi, consapevole di trovarsi a fare i conti con una materia scivolosa e scottante, esposta alle sabbie mobili della retorica, della strumentalizzazione e della spettacolarizzazione. Per questo, sceglie un tocco partecipe ma non esasperato, coinvolgente ma misurato, che guarda in primis alle emozioni e poi alle azioni, esattamente il contrario di quanto visto invece nella miniserie tv Rivoglio i miei figli di Luigi Perelli, a sua volta liberamente ispirata al libro “Perdute” di Sandra Fei, testimonianza in prima persona di una madre impegnata a recuperare i propri figli sequestrati e portati all’estero dal padre. Ne La prima luce la situazione è capovolta, per cui si tende a entrare più in empatia con il protagonista maschile, privato della possibilità di stare vicino al figlio e di vederlo crescere. Nonostante i colpi bassi sferrati dalla controparte, il regista riesce comunque a non trasformare il personaggio di Martina in una figura spietata e senza cuore nei confronti della quale riversare tutto l’astio, ma ne mostra anche le fragilità e ne spiega le motivazioni. La bravura di Marra sta proprio nel non aver identificato il bene da una parte e il male dall’altra, tenendo sempre ben presente che nel mezzo della controversia legale e familiare c’è un adolescente che grida in silenzio. In tal senso, c’è un onesto tentativo di equilibrio, alla quale non è frequente assistere quando ci si misura con questa tipologia di storia.
Quella del regista napoletano è, però, un’opera che ha al suo interno una profonda spaccatura che le impedisce di spiccare il volo. Se nella parte pugliese alterna momenti riusciti (confronto e tentativo di riconciliazione tra i coniugi sul divano del loro appartamento di Bari) a passaggi a vuoto che destabilizzano il flusso emotivo, nella seconda parte, vale a dire quella cilena, Marra riesce a esprimersi al meglio, dando origine a un crescendo che porta a un finale che apre a libere e individuali interpretazioni. A Santiago continua la ricerca e la lotta da parte di Marco per rivendicare i propri diritti di padre e l’amore nei confronti di suo figlio, con la drammaturgia che si alimenta di un altro importante elemento che arricchisce e da nuova linfa alla narrazione, ossia sullo spaesamento, l’impotenza e la solitudine di uno straniero in un habitat ostile e persino spietato, una metropoli abitata da 6 milioni di persone. È la discontinuità e lo scollamento fra le due parti geograficamente lontane il tallone d’Achille di un’operazione altrimenti toccante, asciutta nella resa stilistica e fotografica (il regista sembra attingere più al suo sguardo da documentarista navigato che alla pomposità manierista della sua prova incolore di fiction L’ora di punta), essenziale in quella musicale (pochi interventi e mai invasivi) e ben interpretata da un Riccardo Scamarcio (Marco) in parte come poche altre volte nella sua carriera sino a questo momento (Cosimo e Nicole o Verso l’Eden), da un’autentica scoperta di nome Daniela Ramirez nelle vesti di Martina e del piccolo Gianni Pezzolla in quelle di Mateo.

Francesco Del Grosso

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