In pellegrinaggio
Chi tre anni fa prese parte come addetto ai lavori o più semplicemente in veste di spettatore al Bergamo Film Meeting di certo ricorderà il film Parasol, presentato nel concorso lungometraggi della 34esima edizione della storica kermesse lombarda. Per quanto ci riguarda l’opera prima di Valéry Rosier non ha lasciato all’epoca particolari tracce nella nostra memoria, ciononostante è riuscita comunque a portare a casa una sufficienza in pagella grazie a uno sguardo personale e amorevole sulle vicende narrate e sui personaggi chiamati ad animarle. Caratteriste, queste, che ritroveremo e che saranno ugualmente decisive ai fini analitici anche nella pellicola della quale ci apprestiamo a parlare.
Come gli assassini sono soliti tornare sul luogo del delitto, allo stesso modo anche il cineasta belga ha deciso di rifare la sua comparsa sugli schermi bergamaschi, ma stavolta in combinata e con un progetto completamente diverso rispetto al precedente. La 37esima edizione del B.F.M., infatti, ha ospitato l’anteprima italiana di La grande messe e lo ha fatto nel programma della sezione “Visti da vicino” dedicata al cinema del reale. Quello firmato a quattro mani con Méryl Fortunat-Rossi fa parte della famiglia dei documentari e nel suo caso di quelli meritevoli di attenzioni. Questo perché il passaggio dal cinema di fiction a quello non narrativo pare avere fatto particolarmente bene a Rosier, che al fianco del pluri-decorato collega francese ha potuto confezionare un’opera che a suo modo conquista lo spettatore di turno grazie alla leggerezza, all’umanità e al coinvolgimento che la pervadano e la caratterizzano. Ora capire di chi siamo i reali meriti della riuscita del progetto non è ci riguarda, per cui ciò che ci sentiamo di fare è un’equa distribuzione. Del resto, a conti fatti a parlare dovrebbero essere sempre e solo i risultati; e quelli ammirati sullo schermo sono pregevoli sia tecnicamente in termini di resa qualitativa che d’interesse sociale.
Partiamo proprio da questo secondo aspetto, a nostro avviso centrale e determinante in quanto cuore pulsante del documentario. Prima di tutto però occorre sgomberare dalla mente il pensiero che vede La grande messe inscrivibile nel filone del documentario sportivo, in particolare in quello legato al mondo del ciclismo. Forse lo è, ma davvero in piccola parte e per via del contesto dove questo ha preso forma e sostanza, ossia il tanto atteso Tour de France. Quello della coppia franco-belga è un film che va oltre lo sport in sé, accogliendo nel suo ventre tante cose e tutte ben amalgamate tra di loro: è un film sui fan che vengono a fare il tifo alla celeberrima corsa, un film sui pellegrini dei nostri giorni, un film sui tornanti del leggendario passo Izoard, un film sui camper che prendono posto con due settimane di anticipo, un film sul tempo trascorso appollaiati tra la strada e il dirupo, un film sull’estate e su una nuova routine quotidiana, un film sul nostro bisogno di appartenere. Insomma, quello mostrato è un rito di massa quasi sacro prima ancora della cronaca di un evento sportivo. L’approccio diventa di conseguenza antropologico e il punto di vista passa dai ciclisti agli spettatori, che diventano a tutti gli effetti i veri protagonisti. Quello di spostare il punto di vista, decentrandolo non è in fin dei conti una scelta inedita (vedi ad esempio Wonderful Losers: A Different World nel quale Arūnas Matelis faceva dei gregari e dei paramedici il baricentro), ma in La grande messe finisce con il fare la vera differenza trasformandosi in valore aggiunto e soprattutto in una prospettiva diversa dalla quale osservare un dato evento. Ciò che accade nella competizione e la cronaca sportiva vengono praticamente messi in secondo piano per raccontare attraverso immagini e parole, senza interviste e con pura osservazione, l’esperienza di famiglie intere alle prese con la loro passione comune per le due ruote. Per farlo entriamo attraverso l’occhio della macchina da presa nelle loro vite, nei camper e nelle tende ubicate in loco una settima prima del passaggio della tappa per accaparrarsi il posto migliore da dove vedere sfilare i propri idoli.
La timeline si presenta sotto forma di un breve romanzo a capitoli, il cui scorrere scandisce l’avvicinamento della tappa come in una sorta di countdown. Per 60 dei 70 minuti complessivi inganniamo l’attesa con scampagnate e momenti di ristoro, quanto basta per entrare in contatto con un’allegra brigata formata da persone alle quali non si può non affezionarsi. Saranno loro i nostri occhi per poco più di un’ora e con loro gioiremo e soffriremo in un documentario che non ha bisogno di colpi ad effetto, adrenalina e grandi imprese sportive per entusiasmare, ma di gente comune capace di restituire sorrisi ed emozioni autentiche.
Francesco Del Grosso