Difetto di fabbricazione
Partiva senza dubbio con l’handicap, il remake/reboot de La bambola assassina. Questo perché l’intera saga horror dedicata all’ormai leggendario Chucky, nonostante qualche capitolo ampiamente rivedibile, è stata sviscerata in ogni suo aspetto. Dalla serie B di lusso alla commedia dark, dal film iper-citazionista alla parodia più smaccata. Con un occhio persino al genere queer, soprattutto da quando lo sceneggiatore originario Don Mancini ha preso il comando delle operazioni. Pare allora cosa quantomai opportuna premettere che la necessità di confrontare particolare per particolare la versione 2.1 con quella girata nel 1988 possa risultare gesto del tutto superfluo, buono solo ad appagare le varie curiosità degli irriducibili fans della serie. Diremmo solo che, ne La bambola assassina di oggi, non vi è alcuna possessione diabolica del feticcio di plastica. In luogo del serial killer Charles Lee Ray (nome originato dalla fusione tra Charles Manson, Lee Harvey Oswald e James Earl Ray, tre tipi sinistri che non hanno bisogno di molte presentazioni) troviamo un bambolotto robotico di ultimissima generazione commercializzato come Buddi, del quale un esemplare viene sabotato in sede di fabbricazione – da operai prevedibilmente sottopagati in Vietnam! – per mano di un dipendente appena vessato, licenziato e subito dopo suicida. L’illusione di una lettura da sinistra di un possibile “compagno Chucky”, in verità si esaurisce in tale prologo, mentre rimangono più o meno consistenti tutte le istanze contro il consumismo sfrenato, quello che spaccia il nuovo Chucky come l’amico fedele “di cui tutti i bambini hanno bisogno“, come racconta l’azzimato l’A.D. della ditta che lo produce nello spot che ricorre nel film. Ne fa le spese un ragazzino di nome Andy Barclay – il nome è lo stesso dell’originale – che riceve la versione manomessa come regalo dalla mamma. Non più angelica e salvifica come la Catherine Hicks del classico firmato a suo tempo da Tom Holland ma anzi sessualmente attiva con il suo nuovo compagno, peraltro sposato con prole. Quindi famiglie sbalestrate dove, come regola di genere insegna, il male si può inserire con maggiore facilità.
Il genere, appunto. Perché La bambola assassina 2019 altro non è che una furba cavalcata su tutto quanto accaduto nell’ambito del cinema di riferimento in questo trentennio intercorso. La nuova prospettiva narrativa di partenza rappresenta quasi una genuflessione al George A. Romero “no zombie”, con un riferimento ben preciso a Monkey Shines, guarda caso realizzato nello stesso anno del film primigenio – il 1988 – nonché prodotto dalla gloriosa Orion, che mette il sigillo anche su La bambola assassina contemporanea. Basta sostituire Chucky alla scimmietta Ella come catalizzatore ed esecutore degli istinti negativi di chi lo possiede. Con il piccolo Andy che, analogamente al protagonista di Monkey Shines, è gravato di un handicap fisico, nella fattispecie seri problemi uditivi. Insomma Lars Klevberg – regista norvegese trapiantato in U.S.A. che si conferma un modesto mestierante beneficiato dall’immeritato successo di Polaroid, corto poi trasformato in lungometraggio – e lo sceneggiatore Tyler Burton Smith appaiono come due clienti da supermercato ai quali è stato regalato un ingente buon spesa: arraffano simbolicamente dagli scaffali del cinema post-post-moderno senza badare troppo alla qualità del prodotto. Strizzando l’occhio tanto ai fan dell’antico Chucky – per l’occasione dai lineamenti sin troppo umani – che a quelli di Stranger Things, con un gruppo di adolescenti pronti all’inevitabile scontro con il robottino fuori di testa. Ma anche agli innocui horror contemporanei. Momenti riusciti, come la sequenza pre-finale ambientata all’interno del grande magazzino in cui si vendono i modelli di Buddi e dove lavora la madre di Andy, si alternano allora a sequenze decisamente non necessarie, tipo le parentesi a casa del poliziotto afroamericano vicino di casa, di una comicità assai discutibile tesa a scimmiottare il mix di umori marchio di fabbrica del cinema di Jordan Peele. Perché a venir a mancare, alla fine della fiera, è proprio l’unico ingrediente che non è possibile acquistare, ossia l’incomparabile innocenza verso il genere di un prodotto genuinamente anni ottanta.
Ne La bambola assassina 2019 c’è la consapevolezza di un’operazione meramente antologica mirata a finalità da botteghino. Nulla di male, ma se ne poteva fare tranquillamente a meno.
Daniele De Angelis