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Kung Fu Jungle

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VOTO: 6

Ne resterà soltanto uno

Nell’edizione che celebra i martial arts hongkonghesi, il Far East Film Festival propone in anteprima nazionale, oltre a una breve retrospettiva composta da una manciata di grandi cult, anche l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Teddy Chen, ossia Kung Fu Jungle, che proprio al suddetto filone vuole rendere un sentito omaggio, come in passato avevano fatto Stephen Chow prima e la coppia formata da Clement Cheng e Derek Kwok dopo, rispettivamente con Kung Fu Hustle (2004) e Gallants (2010). A differenza dei giovani connazionali, il veterano del cinema di Hong Kong sceglie un tono drammatico invece che parodistico, puntando su un’ambientazione contemporanea e su un ibrido nel quale confluiscono dosi massicce di poliziesco, serial-thriller e soprattutto azione. Il risultato è tuttavia ben al di sotto delle aspettative se si pensa che solo sei anni fa Chen aveva firmato l’entusiasmante e adrenalinico Bodyguards and Assassins, anch’esso presentato alla kermesse friulana.
L’insoddisfazione nei confronti della pellicola viene dal fatto che quello che dovrebbe essere il cuore dell’operazione, vale a dire la presenza di scene marziali di grande livello, inizi a pulsare solo nell’ultimo quarto della timeline, quando il regista inizia finalmente a pigiare in maniera convinta il piede sull’acceleratore, offrendo alla platea un piacevole spettacolo pirotecnico. È proprio dalla scena del villaggio sulle palafitte sino all’epilogo notturno sull’autostrada che conduce al porto  che si concentrano le cose migliori, quelle che quantomeno ripagano il prezzo del biglietto. Nella ventina di minuti che delimitano la suddetta fase, Chen sfodera i pezzi forti del campionario a sua disposizione con una successione di inseguimenti, corpi a corpi e sparatorie, quelli che negli anni Novanta avevano fatto brillare gli occhi degli spettatori di Downtown Torpedoes (1997) o Purple Storm (1999). L’aumento del tasso di spettacolarizzazione e della velocità d’esecuzione danno una decisa scossa, ma quando è oramai troppo tardi per risollevare le sorti del film. Fino a quel momento, infatti, il regista alterna sequenze degne di nota (quella nello studio dei tatuaggi) ad altrettante non all’altezza della situazione (quella nel museo), disseminate qua e là per ricordare che quello che scorre sul grande schermo dovrebbe essere, almeno sulla carta, un martial arts action.
Con Kung Fu Jungle, Chen prova a tornare ai bei tempi che furono, ma l’esito lascia a desiderare. Per un’ora e passa assistiamo a una minestra riscaldata di situazioni, dinamiche e personaggi che abbiamo già ampiamente metabolizzato, animate da una galleria di vecchie e nuove leve che hanno contribuito alla causa del genere. Di conseguenza, quello che vediamo è il frutto ampiamente prevedibile di una trama ridotta all’osso. Lo script incasella l’uno dopo l’altro dinamiche di facile lettura, proprio perché hanno il sapore inconfondibile del già visto. Ci troviamo così a fare i conti con il solito protagonista dal passato turbolento (interpretato dal sempre in forma Donnie Yen), chiamato ad aiutare la polizia a dare la caccia al serial killer di turno. Già sentito? Appunto.

Francesco Del Grosso

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