Amarcord coreano, con famiglie divise dalla guerra sullo sfondo
Qui al Far East Film Festival, nel corso degli anni, di pellicole che avessero al centro del loro impianto narrativo la divisione tra le due Coree ne sono passate una marea. E in alcune di queste produzioni era proprio il ricordo della Guerra di Corea a catalizzare l’attenzione. Soltanto che in certi casi si è riusciti realmente a proporre uno sguardo complesso e sfaccettato, una lettura critica delle coordinate politico-militari che avevano caratterizzato il tragico evento, una visione dolente ma profondamente umana e sincera delle sofferenze cui era stato sottoposto il popolo coreano; mentre in altre occasioni il cinema della Corea del Sud non ha fatto altro che spettacolarizzare quegli anni difficili, sedimentati in profondità nella memoria collettiva, dando vita a indigesti blockbuster in cui la chiave propagandista finiva per fare capolino, in senso nazionalista, con una certa pesantezza. Purtroppo è principalmente a questa seconda “corrente” che un film come Ode to My Father può essere apparentato.
Il kolossal diretto da JK Youn, regista e produttore di fama che in Corea ha sfornato diversi successi commerciali (Sex is Zero nel 2002, Haeundae nel 2009, volendone citare qualcuno), quasi sempre focalizzati su temi di facile presa che, opportunamente gonfiati, ottenessero un grosso riscontro di pubblico, è strutturato su una lunga serie di flashback che dai giorni nostri ci riportano alla drammatica evacuazione del porto di Hungnam, nella Corea del Nord, allorché con l’appoggio della marina statunitense molte famiglie furono portate in salvo al Sud, sotto la pressione dell’avanzata cinese. Ma parecchi civili in quelle fasi confuse perirono anche o furono bruscamente separati dai propri famigliari. In Ode to My Father il regista ha provato a riassumere, a mo’ di affresco generazionale, la storia di una di queste famiglie divise, espressa dal punto di vista di un ragazzino cresciuto col ricordo di un episodio particolarmente traumatico, doloroso, avvenuto durante la ritirata.
Tuttavia nell’accattivante ricostruzione tentata da JK Youn si scivola troppo facilmente nella retorica del dolore o in quelle scenette di alleggerimento che, a livello alquanto superficialotto, possono persino ricordare Forrest Gump; un possibile (e in ogni caso maldestro) riferimento che ci è venuto in mente tanto per la sequenza iniziale, con una farfalla a prendere il posto della celebre piuma, che per l’inserto narrativo dedicato invece al successivo periodo della Guerra del Vietnam. Si salva magari l’altra parentesi dedicata all’emigrazione nelle zone minerarie della Germania, per il suo impatto sociale, ma è un po’ poco, se si considera la complessiva faciloneria di Ode to My Father.
Stefano Coccia