Kimi, chiama il 9-1-1
Steven Soderbergh e la tecnologia, un duetto che ha portato ultimamente a dei progetti cinematografici semplici ma importanti, sviluppati proprio dal regista statunitense. Le ultime opere parlano di un artista capace di destreggiarsi benissimo non soltanto per le storie che racconta ma anche per come le illustra. Negli ultimi anni, il regista nativo di Atlanta ha letteralmente rivoluzionato il modo di fare cinema adattandosi agli standard odierni e basandosi sull’utilizzo delle tecnologie di base quotidiane, come gli smartphone. Già, perché Kimi, così come in precedenza Unsane e High Flying Bird, è stato girato utilizzando un Iphone e nel bel mezzo della pandemia di Covid 19 che circonda le vicende della pellicola. Il prodotto centrale di questa vicenda è però Kimi, una versione immaginaria di Alexa, l’intelligenza artificiale sviluppata da Amazon che compie semplici gesti nel quotidiano basandosi solo sul suono della nostra voce.
La protagonista Angela Childs, interpretata dall’attrice del momento Zoe Kravitz, è un tecnico informatico alle prese con le correzioni della IA. La Childs conduce un’esistenza solitaria, isolata dal resto del mondo e capace solo di guardare dalla finestra del suo appartamento, circondata da forti sentimenti di paura nei confronti di ogni cosa. Childs/Kravitz è uno di quegli elementi che vive gran parte della sua vita basandosi sui rapporti interfacciati da un PC. Il personaggio scritto per la co-protagonista di The Batman sposa alla perfezione alcuni tipi di personalità che ormai racchiudono la loro esistenza in una spirale circolare ripetitiva. Il personaggio tuttavia subirà una profonda evoluzione quando scoprirà che uno dei dispositivi Kimi che stava riparando racchiude al suo interno un segreto oscuro che qualcuno non vuole emerga.
E qui sta anche la semplicità della sceneggiatura scritta da Soderbergh, molto simile tra l’altro a quella di Unsane seppur cambi il contesto. Senza voler strafare, la vicenda si svolge in un breve arco temporale che consente anche una visione non troppo pesante del lungometraggio. Accanto alla Kravitz c’è giusto una cerchia ristretta di attori che si limitano a brevi cameo (come nel caso di Matt Damon in Unsane). Kimi è l’ennesimo esperimento, riuscito, di un regista che sta modificando il proprio modo di lavorare all’interno di un’industria troppo attaccata ai vecchi canoni ed incapace di evolversi. La pandemia ha rallentato il cinema ma non lo ha fermato e Soderbergh, insieme a pochissimi altri, è uno di quei registi che ha scelto di lavorare anche in condizioni difficili nel bel mezzo di una situazione sanitaria molto complicata. Il risultato è un film piccolo ma gagliardo. Semplice e scorrevole. Di nicchia ma importante. Insomma, il classico Steven Soderbergh.
Stefano Berardo