L’amore è una giostra
In un secolo e passa della loro storia, la Settima Arte in generale e il cinema di fantascienza nello specifico, di amori inconfessabili, osteggiati e impossibili, ma al contempo travolgenti e intensi, ne ha raccontati innumerevoli. Amori tra esseri umani e macchine, robot, intelligenze artificiali, computer, cyborg, androidi, replicanti, alieni e creature fantastiche di ogni sorta e provenienza. Scavando nella memoria, ma sempre pronti a una doverosa e giusta smentita, non vi è però ricordo alcuno di un incontro/scontro sentimentale tra una donna e una giostra. Motivo per cui, la curiosità nei confronti di Jumbo di Zoé Wittock è stata sin da subito fortissima.
Al centro dell’opera prima della talentuosa e promettente cineasta belga, presentata al 20° Trieste Science + Fiction Festival in anteprima nazionale dopo le fortunate proiezioni al Sundance e alla 70esima Berlinale nella sezione “Generation 14plus”, la vicenda Jeanne, una diciottenne introversa, che lavora come guardiana notturna in un parco divertimenti. La madre, una disinibita ed esuberante barista di nome Margarette, vorrebbe che incontrasse un uomo, ma lei preferisce stare nella sua camera ad armeggiare con fili, lampadine e pezzi di ricambio, creando giostre in miniatura. Nelle sue notti al lavoro comincia a trascorrere dei momenti intimi con la seducente nuova giostra Tilt-A-Whirl, che decide di chiamare Jumbo. Sedotta dalle sue luci rosse, dalle lisce cromature e dai giunti oleosi, Jeanne decide che la nuova elettrizzante avventura che vuole avere è proprio quella con Jumbo.
Ora se volessimo riportare il tutto nella sfera del razionale, del terreno, del realismo e di quello che la medicina e della psichiatria possono esprimere a parole, formulando una diagnosi sulla “natura” della patologia che affligge la protagonista, comunemente e clinicamente si dovrebbe chiamare in causa l’oggettofilia, un sentimento, con annesso desiderio sessuale dello stesso, pari a quello che si potrebbe provare per gli esseri umani, ma in tal caso il desiderio è rivolto ad un oggetto inanimato. Ovviamente non ci addentreremo nelle spiegazioni tecniche della suddetta patologia, poiché questa non è la sede adatta per farlo, per cui ci siamo limitati a una sintetica traduzione del termine che ne racchiude il significato e i “sintomi”. Questo perché riteniamo che la pellicola della Wittock consenta allo spettatore di turno, in particolare a quello che si dimostra capace di ampliare i propri orizzonti e di scavare più in profondità al di sotto di una lettura meramente superficiale e semplicistica, di vedere “altro” che non sia un banale e poco approfondito film sulla malattia mentale e su un comportamento sessuale atipico. O almeno lo è, ma solamente in parte, perché la restante, quella dominante per quanto ci riguarda nello script, rappresenta il baricentro narrativo e drammaturgico su e intorno al quale si sviluppa l’opera.
L’autrice ha preso spunto da una vicenda vera, dalla quale poi ha deciso di distaccarsi per dare forma e sostanza audiovisiva a un film metaforico, che ha il proprio cuore pulsante in una delicata, dolce, surreale e romantica storia d’amore, immersa in un irresistibile caleidoscopio di colori. Jumbo è questo, vuole essere in primis questo, e in quanto tale si materializza sullo schermo con pennellate psicadeliche di lirismo che accompagnano i continui passaggi dal realismo all’astrattezza, dal vero all’onirico di certi momenti. Scene come l’orgasmo di Jumbo o i giochi e le danze di seduzione tra la giostra e Jeanne sono l’espressione del suddetto modus operandi. Il risultato è un crescendo di emozioni che travolgono i personaggi e di riflesso il fruitore, quest’ultimo incantato dalla straordinaria interpretazione di Noémi Merlant (già protagonista dell’acclamato Ritratto della giovane in fiamme) e dalla maturità con la quale la cineasta ha “scritto” in punta di piedi con la macchina da presa questo bellissimo poema amoroso.
Francesco Del Grosso