Darsi la possibilità di guardar(si)
«Osservate la posizione delle braccia». Si comincia così, con Marianne (Noémie Merlant) che, in posa per le sue allieve, dà istruzioni proprio sulla composizione del ritratto. Questa indicazione – e ancor più l’immagine – tornerà di lì a poco nei suoi ricordi e nel viaggio ideale che la regista Céline Sciamma fa compiere alla platea di turno.
«In qual modo cioè convenga eseguire il ritratto, se riproducendo esattamente la figura fisica del personaggio reale in tutte le sue accidentalità, o se idealizzando» scriveva Benedetto Croce a inizio Novecento. La nostra protagonista risponde a modo suo a questa riflessione, difendendo con le unghie e con i denti gli strumenti del proprio lavoro (capirete guardando), ma ancor più quando sarà costretta a guardarsi. «Che il vostro dipinto non mi somigli, posso capirlo, ma che non somigli neanche a voi è davvero triste», si sentirà dire (provocatoriamente).
Di riflesso potremmo dire la regista che affonda l’obiettivo della macchina da presa restituendo un ritratto di donna e di donne, molto curato sul piano estetico-formale (merito anche della direttrice della fotografia Claire Mathon, dei costumi di Dorothée Guiraud e delle scene di Thomas Grezaud).
«Quando mi sono immersa nello studio della documentazione per il film, sapevo pochissimo della realtà delle artiste di quell’epoca», ha spiegato la regista francese, aggiungendo «conoscevo solo quelle più famose di cui è provata l’esistenza: Elisabeth Vigée Le Brun, Artemisia Gentileschi o Angelica Kauffman. La difficoltà a raccogliere informazioni e materiali d’archivio non ha però impedito che la consistente presenza di donne nel mondo dell’arte della seconda metà del XVIII° secolo emergesse con forza. Le donne pittrici erano numerose e avevano un certo successo, soprattutto grazie alla moda dei ritratti. C’erano donne esperte d’arte, rivendicazioni per una maggior uguaglianza e per una maggiore visibilità, c’era di tutto. In questo contesto un centinaio circa di pittrici hanno avuto vite e carriere di successo. Molti dei loro lavori appaiono nelle collezioni dei più importanti musei. Ma sono rimaste escluse dalle cronache e dai resoconti storici. Quando ho scoperto le opere di queste pittrici dimenticate ho provato al tempo stesso una grande emozione e un grande dispiacere. Il dispiacere per l’anonimato totale nel quale sono stati relegati questi lavori, condannati a restare nascosti. Ho sofferto non solo per essermi resa conto di come la storia dell’arte ufficiale li abbia resi invisibili ma anche per le conseguenze: quelle immagini mi turbano e mi commuovono soprattutto perché non hanno fatto parte della mia vita».
In Ritratto della giovane in fiamme, scavando nei cassetti della memoria, ci ritroviamo nel 1770. Marianne, pittrice di talento, viene ingaggiata per effettuare il ritratto di Héloise (Adèle Haenel), una giovane donna che ha da poco lasciato il convento per sposare l’uomo a lei destinato. Quest’ultima, in realtà, tenta di deviare il destino deciso per lei, rifiutandosi di posare a chiunque abbia provato prima. Su indicazione della madre (Valeria Golino), la nostra artista dovrà dipingerla di nascosto, presentandosi come la dama di compagnia. Frequentandosi, rubando attimi lontano da occhi (e dal controllo), le due donne iniziano a scoprirsi a se stessa e all’altra.
La Sciamma ha già dimostrato nella propria filmografia l’attenzione viscerale nei confronti di un tasto spesso dato per scontato durante il tram tram quotidiano, ma da sempre indagato nell’Arte: l’identità. Con Diamante nero (ambientato ai giorni nostri) aveva focalizzato il suo sguardo su quella femminile e in quest’ultimo lavoro torna a farlo, ma da un’altra prospettiva e cercando di riaccendere la curiosità sulle artiste non fatte passare volutamente alla storia.
Immaginiamo che potrà essere molto soggettivo, ma un punto su cui il lungometraggio ci è risultato meno efficace è l’empatia. Ogni fotogramma è confezionato perfettamente, ma per quanto le due protagoniste si mettano a nudo, qualcosa non scatta sul piano delle emozioni che dovrebbero com-muovere o prenderci di pancia. Senza dubbio, la regista di Tomboy è riuscita a mettere a fuoco come «il rapporto con l’arte nel film sia vitale proprio perché i personaggi sono isolati. Prima di tutto dal mondo, poi uno dall’altro».
A cosa si riferisca (letteralmente – e non solo) il titolo ve lo facciamo scoprire in sala. Il film è stato insignito al Festival di Cannes 2019 per la migliore sceneggiatura.
Maria Lucia Tangorra