Carne e sangue
Che il Cile potesse essere il regno del rimosso, la culla di colpe e di conflitti mai completamente risolti e sanati ce l’aveva già fatto capire, da almeno un decennio, Pablo Larrain. Non sorprende allora ritrovare un poco di quel cinema (assieme ad alcuni dei suoi volti ricorrenti, come ad esempio quello di Alejandro Goic) anche nell’opera seconda di Fernando Guzzoni, Jesus, presentata in concorso alla 34esima edizione del Torino Film Festival.
Dopo l’acclamato esordio di Carne de perro, è ancora l’ombra del passato a intrecciare sommessamente le storie e i destini dei suoi protagonisti, a far deflagrare contraddizioni e interrogativi morali. Ma è un passato invisibile quello di Jesús, un passato – dimentico della dittatura, delle torture e degli omicidi – che si ripercuote tutto nel presente, nello scontro tra vecchio e nuovo, nell’afasia e nella disumanità (incolpevole?) delle nuove generazioni.
Jesús e i suoi amici adolescenti, tra serate tossiche e violente, concorsi di street dance e amori occasionali, sono come orfani, figli di padri perennemente assenti e in conflitto con loro, ragazzi perduti lasciati soli con la propria bestialità, con la propria incapacità di amare, con i propri crimini. Una deriva che è anche, e soprattutto, crisi identitaria e sfascio morale, il riflesso di azioni insofferenti e scellerate elevatesi a sistema ottuso e spietato.
Come già nel lungometraggio precedente, è lo sguardo, di un realismo cocente e quasi documentaristico, l’aspetto che più colpisce in un film come Jesus. Un pedinamento costante e ossessivo che carpisce ansie, smarrimenti, bassezze e umori, dove la macchina da presa – a mano o in disparte, quasi abbandonata come un osservatore discreto – non risparmia né nasconde nulla, all’inseguimento di un’umanità impossibile. Fino alla catastrofe.
Sicuramente meno incisivo del suo predecessore, Jesus sa però farsi cronaca ispirata di un presente vuoto che non sa e non vuole comprendere e comprendersi. Un dramma di figli abbandonati perché incapaci, forse, di qualsiasi redenzione, simbolo di una bestialità banale e quotidiana iscritta nei corpi e nei volti come una predestinazione, come un marchio impossibile, ormai, da cancellare.
Mattia Caruso