Quando si diventa grandi
Il Cinema modello “flusso di coscienza” non è esattamente cosa nuova nell’ambito della Settima Arte. Il grande Terrence Malick, da The Tree of Life (2011) in poi – ma c’erano sta già avvisaglie in The New World (2005) – ne ha esplorato qualsiasi angolazione recondita, sino a suscitare addirittura reazioni di rifiuto nel pubblico nei confronti di un sottogenere capace di trovare un’ideale comunione tra la bellezza delle immagini e la riflessione del pensiero.
Nel caso di Jazzy – selezionato per il concorso Progressive Cinema alla Festa del Cinema di Roma 2024, dove ovviamente ha vinto il premio assegnato alla miglior regia – ci troviamo ad osservare sei anni di vita di Jasmine detta Jazzy, dal passaggio alla preadolescenza fino alle soglie della vita adulta. Un classico racconto di formazione per una bambina, almeno in partenza, della comunità Lakota, i cui precedenti storici sono stati narrati nel bellissimo lungometraggio di Martin Scorsese Killers of the Flowers Moon (2023). A far da congiunzione tra le due opere ecco Lily Gladstone, attrice nel film precedente e in Jazzy impegnata sia davanti alla macchina da presa che in ruolo produttivo. E se ne comprendono a fondo i motivi, guardando il lungometraggio diretto da Morrisa Maltz: la necessità di calarsi a fondo nella vita dei nativi. La loro emarginazione, la necessità da parte loro di vivere in ghetti che offrono poco e nulla sia a livello culturale (a parte la scuola) che di svago e divertimento. Jazzy dunque cresce in un’ambiente dove le giornate scorrono senza esperienze fondamentali da ricordare; e così anche per la regia della Maltz divengono fondamentali i dettagli, allo scopo di catalizzare l’attenzione degli spettatori. Ecco dunque l’amicizia, nata dalla più tenera età, con la coetanea Syriah, costretta ad interrompersi a causa della partenza dell’amica. Il senso di una perdita non traumatica ma che potrebbe essere comunque definitiva. La spinta a prendere consapevolezza di cosa significhi vivere, tra pochi momenti di gioia e molti altri di dolore. Jazzy osserva e metabolizza tutto, rielaborando sullo schermo pensieri che appartengono di diritto all’intimità. Unico mezzo a disposizione per calamitare lo sguardo di un pubblico tentato da altre distrazioni, nei tempi “tecnologici” in cui viviamo. E proprio il tempo gioca favore della riuscita di Jazzy. Un tempo che appare dilatato, forse la (ri)scoperta di un’altra forma di tempo in grado di farci apprezzare le molte cose a disposizione. Quindi l’esile figura di Jasmine si universalizza, ricordandoci di vivere il nostro tempo senza subirlo. Tutto questo in un ambiente, quello Lakota appunto, dove gli adulti, compresa la Gladstone, si materializzano solamente nel finale, testimoniare l’estrema solitudine di una persona (la piccola protagonista), impegnata a studiare quel mondo a cui ben presto apparterrà. Inevitabilmente, verrebbe da sottolineare.
Daniele De Angelis








