Per un posto nel mondo
La normalità, oggi, può trasformarsi in un acuto grido di dolore, in una società globale che corre a perdifiato in una direzione contraria a quella dettata dal buonsenso e della solidarietà umana.
La vicenda narrata da Io Capitano di Matteo Garrone, in questo senso, risulta esemplare. Due ragazzi senegalesi – di nome Seydou e Moussa, cugini come grado di parentela – vivono un’esistenza appunto normale, a Dakar. Fanno musica, vanno a scuola, sono amati dalle rispettive famiglie. Che entrambi vorrebbero aiutare economicamente in misura maggiore, consapevoli di quanti sacrifici stiano facendo per educarli nel miglior modo possibile. L’Occidente chiama. L’Europa come terra di opportunità risulta un miraggio irresistibile. Senza avvertire partono dunque per un viaggio che quasi subito si tramuta in un’odissea senza fine, punteggiata da cinismo, sete insaziabile di denaro ma anche incontri umani ed amicizie fortuite che porteranno supporto decisivo alle sorti dei due adolescenti.
Il cuore pulsante di Io Capitano batte proprio sotto quest’aspetto. Nella possibilità, in un mondo ideale ancora purtroppo ben lontano dall’essere anche solo avvicinato, per ogni individuo del globo di avere il diritto di scegliere dove e come vivere, abbattendo confini fisici, differenze di pigmentazione della pelle, credenze religiose e via discorrendo. Al contrario, scegliendo saggiamente l’unico punto vista moralmente accettabile, ovvero quello dei due giovani protagonisti, Io Capitano racconta un viaggio intriso di sofferenza ed orrori, dove poche banconote possono rappresentare la differenza tra la vita e la morte e qualche dettaglio mutare irreversibilmente i destini di individui ognuno con una propria storia personale. Un pugno nello stomaco per una realtà (Libia docet) che a tutti fa comodo ignorare. Tornando al film siamo dunque dalle parti del classico, ancorché traumatico, racconto di formazione. Dove la crescita è scandita, per i due protagonisti, dal comprendere a fondo la nuova realtà che stanno vivendo ed assumerne di conseguenza le varie responsabilità che essa comporta.
Un percorso che vale per il cinema di Matteo Garrone, da tempo in mutazione ormai irreversibile. Abbandonate sembra definitivamente le annotazioni socio-antropologiche su un’umanità alla deriva, prevalenti in Gomorra (2008) e Reality (2012), ora è tempo di concentrarsi sulla purezza del racconto, privilegiando anche sottotesti fiabeschi – Il racconto dei racconti (2015) e Pinocchio (2019) sono lì a ricordarcelo. Ma sono presenti anche in Io Capitano – dove la cosiddetta morale non emerge da una pedissequa lettura del testo filmico ma è nascosta tra le righe dello stesso, con lo spettatore chiamato a scegliere quella che sente maggiormente affine alla propria sensibilità. E ciò che colpisce maggiormente, in un’opera di cui qualcuno potrebbe lamentare l’eccessivo classicismo, tale da renderla narrativamente prevedibile, è la capacità di Matteo Garrone di compenetrarsi in modo assoluto nel film che sta realizzando, suscitando un empatia insolita per il cinema asettico dei nostri tempi. Un risultato ottenuto anche grazie alle interpretazioni, di grande realismo e spontaneità, di Seydou Sarr (meritatissimo premio Mastroianni) e Moustapha Fall nei ruoli principali.
Un Leone d’Argento a Venezia 80 alla regia ben meritato, quindi, per l’autore romano. Un riconoscimento che in fondo ci riporta al discorso di partenza. Un ulteriore stimolo a percorrere nuovi sentieri e trovare nuove forme espressive, come richiede ogni forma d’Arte che si rispetti. Perché allora un diritto imprescindibile per gli artisti dovrebbe essere negato ad un qualsiasi essere umano nella vita di tutti i giorni?
Daniele De Angelis