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Il racconto dei racconti

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VOTO: 8

Le vere fiabe non mentono

Raramente il cinema è riuscito a cogliere il lato occulto della favola, soprattutto in tempi recenti. Più spesso, la derivazione fantasy (citiamo come esempio la saga di Harry Potter) o ancor prima la fantascienza (George Lucas con il Guerre stellari primigenio non fece altro che mutuarne la struttura archetipica) sono andati incontro, con indubbio acume e abilità, al gusto del pubblico, quasi azzerando però a monte qualsiasi discorso filosofico di ambito prettamente umanista. Nella sua ultima fatica, Il racconto dei racconti, Matteo Garrone ha coraggiosamente scelto il percorso inverso: utilizzare cioè tutto l’armamentario classico della favola, tra re e regine, negromanti e streghe, draghi e pulci giganti, per arrivare ad un’affascinante sintesi apologetica sull’essenza della natura umana. Sperando di cuore che l’operazione abbia un riscontro al botteghino, anche se la mancanza di un target preciso, dato la consistente stratificazione su più livelli del prodotto, fa sorgere più di qualche dubbio nei confronti di un pubblico poco preparato ad un evento – perché di vero e proprio evento si sta parlando – del genere.
Estrapolando tre storie emblematiche – e almeno due di loro di abbagliante modernità nei rispettivi sottotesti – da uno dei più pregnanti e seminali libri favolistici mai scritti in Italia, la raccolta Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, cinquanta racconti pubblicati nella prima metà del Seicento, Garrone ha di fatto reso esplicito il lavoro di contaminazione tra realtà e finzione già mirabilmente iniziato nel precedente Reality (2012), dove lo sventurato protagonista perdeva le coordinate del reale inseguendo il sogno impossibile di una popolarità televisiva calata dall’alto di un’altra dimensione. Se per Reality calzava assai bene la definizione di opera neo-irrealista, allora per Il racconto dei racconti si può tranquillamente parlare di un ritorno alla purezza assoluta di un cinema passato, dove l’autore aveva la possibilità di sperimentare e affabulare partendo da materiali assolutamente aderenti alle credenze e alle tradizioni popolari. Azzardando una lettura politica a Il racconto dei racconti – anche se può sembrare “fuori moda”, in generale, farlo in questo periodo – l’ultima fatica del regista romano è tra le altre cose un film sanamente proletario, pasoliniano nello spirito per la scelta simbolica di guardare dal basso verso l’alto nonché capace di puntare impietosamente l’indice verso l’inevitabile corruzione interiore che scaturisce da un Potere solo in apparenza “anacronistico” ed invece assai radicato anche nel presente, con i risvolti che chiunque può avere sotto gli occhi.
Tre regnanti per tre racconti, come nella migliore tradizione fiabesca. Ma solo uno dei quali – non a caso quello femminile, ovvero la regina interpretata da Salma Hayek – riesce a dare un senso alla propria esistenza, uscendo per affetto filiale dal senso di onnipotenza che li imprigiona. E proprio la donna è l’epicentro tellurico della narrazione, nel film di Garrone. La donna che vuole assecondare ad ogni costo (anche la perdita del consorte, pienamente sacrificabile) la propria vocazione materna, nel caso della sovrana Salma Hayek. La donna che cambia forma, nella figura dell’anziana Dora che ringiovanisce dopo incantesimo – praticato da una strega, non a caso – e che perciò conquista il cuore, o meglio le parti bassi, del vizioso Re Vincent Cassel. La donna che cresce, la figlia del Re Violet (stupefacente performance della pressoché inedita Bebe Cave), data in sposa ad un orco causa ottusità paterna e che assaporerà ben presto il sapore del sangue, quello che la farà divenire adulta. Gli uomini nient’altro che orpelli, solo funzionali all’evoluzione della storia. Illusi di possedere un diritto di superiorità che, inesorabilmente, si ritorcerà contro di loro. Garrone introduce, attraverso uno stile formalmente impeccabile accompagnato ad un’aggraziata severità che non fa sconti, lo spettatore in un labirintico e sofisticato gioco di specchi in cui ad ogni pulsione corrisponde in modo sistematico il proprio opposto. Nascita e morte, desiderio e ripugnanza, illusione e disincanto. Celata, nemmeno troppo nascosta tra le pieghe de Il racconto dei racconti, c’è dunque la vita. Nella sua contraddittoria bellezza selvaggia spesso e volentieri fonte di effimeri piaceri e insostenibili dolori. E potrà forse suonare paradossale, ma neanche troppo, che in tempi di globalizzazione mediatica in cui una notizia falsa può diventare vera nel giro di pochi minuti perché tutti vogliono credere ad essa, siano proprio le favole a metterci di fronte alla nuda verità senza quasi farcene accorgere. Anche per questo motivo si vorrebbe che il “gioco” instaurato da Il racconto dei racconti, nei suoi ritmi lenti e desueti, non finisse mai, da bambini ancora in fase di crescita quali, in fondo, siamo tutti. Per arrivare alla fine, in precario equilibrio a camminare su una corda infuocata, c’è sempre tempo. Almeno così ci piace pensare, negando fino all’ultimo istante possibile la cruda e in fondo crudele veridicità dell’assunto.

Daniele De Angelis

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