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Intervista a Massimo Volta

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Lo squalo, l’hikikomori e gli anni Ottanta

Un passato da fotografo e da pubblicista con l’high-speed cinematography, fonda una casa produttrice a Milano assieme ad un collega prima di dedicarsi alla sua vera passione: il cinema di genere. Abbiamo incontrato Massimo Volta, classe 1973, regista esordiente nel controverso panorama italiano e autore di Nona, cortometraggio ispirato da un racconto di Stephen King contenuto nel libro “Scheletri” (1985).
Un amore, quello per lo scrittore del Maine, che ha coltivato fin dalla tenera età di dodici anni, quando – in vacanza con la madre a Sirmione, sul lago di Garda – incappò per caso in “A volte ritornano”, la raccolta di storie pubblicata nel lontano 1978, acquistata in una bancarella di libri usati. «Ricordo che fu terrorizzante, la notte non dormii, però mi appassionai a tal punto che mi ha accompagnato per tutta la vita». Almeno fino al giorno in cui la sua fidanzata lo spinse a fare il passo e realizzare un vecchio sogno nel cassetto: la trasposizione cinematografica di Nona, short story di trentotto minuti. Decide così di mandare una mail al diretto interessato, alla quale tempestivamente risponde Margaret (l’assistente personale di King), che chiedeva maggiori delucidazioni sul progetto. Qualche giorno dopo, con grande stupore, arriva il contratto – firmato dallo stesso scrittore – che data la natura no-profit del progetto chiedeva 1 dollaro per i diritti d’autore. «Non potevo fare un bonifico di 1 dollaro, allora sono andato in banca a farmelo dare e l’ho rispedito al mittente dentro ad una busta chiusa assieme al contratto». «Secondo me è uno dei suoi racconti più riusciti, ha un’impronta da cinema anni ’70 che ho provato a ridargli come cifra estetica nel mio lavoro: c’è la rabbia giovane, il paranormale, il mistero. Stephen King è come la voce di un amico che ti racconta delle storie che ti fanno da un lato paura ma dall’altro ti fanno anche sognare. È lo Spielberg della letteratura, ed io amo Spielberg! Per me ha sempre rappresentato qualcosa che va ben oltre i libri stessi».
Nona va ad inserirsi in quel filone ancora poco esplorato che è il romance-horror, in cui amore, ossessione e morte convivono in uno stretto legame inestricabile. «Il tema dell’amore – ci confessa Massimo – per me è molto affascinante perché non si riesce bene a capire che cosa sia anche se ne parlano tutti, non è ben chiaro il confine tra l’aspetto positivo e l’aspetto negativo del sentimento, di come si possa passare in un attimo la linea di quel limite».
Un cinema, quello del giovane regista milanese, che si vuole discostare dall’appiattimento concettuale del mainstream italiano per approdare invece sui lidi meno sicuri del cinema di genere, diviso tra il passato dei mostri sacri ed il complicato presente delle nuove leve. Gli chiediamo allora quale sia la via da intraprendere. «Secondo me è un concorso di situazioni. Da un lato, ed è la cosa più visibile, certe generazioni non torneranno più. La stessa cosa succedeva in America. Coppola, Scorsese, Lucas, Spielberg: una generazione così, in un momento storico in cui si poteva fare quel che si voleva. In Italia una tale vitalità – Bertolucci, Fellini – alimentava tutto un sottobosco di artigiani del cinema che dava coraggio ai produttori. I risultati c’erano. Era più facile produrre un film come Suspiria o Profondo rosso. Una sorta di effetto volano in cui tutti funzionavano grazie a tutti. Con l’avvento della tv commerciale e della crisi economica si è perso tutto questo. I produttori si sono accorti che produrre commedie costava poco ed era più efficace, sono quindi arrivati i cinepanettoni ed i loro derivati. Con la commedia tu puoi tra virgolette “barare”: filmi personaggi televisivi e li metti in una situazione tecnicamente semplice da realizzare, crei delle gag che sono quelle televisive riviste e corrette – corna, pernacchie – e le filmi in una maniera estremamente banale. Diventano dei prodotti per la televisione molto sicuri, per i produttori tutto questo è tranquillizzante. Il cinema di genere richiede un grosso impegno, non è facile, devi saperlo fare, altrimenti non funziona». Il cinema di genere è un cinema rischioso. «Infatti un film come Lo chiamavano Jeeg Robot è un caso che sia uscito e che abbia avuto successo. Mi son trovato a parlare con dei produttori romani che di colpo erano interessati ai film di genere senza sapere quello di cui stavano parlando perché poi quando entrano nel vivo di nuovo si spaventano. Il cinema di genere viene considerata roba di serie B quando poi nella realtà non lo è. Rispetto agli States o alla Francia noi produciamo molto meno, loro hanno un terreno più fertile da questo punto di vista. In Italia se dici “intrattenimento” la si prende come un’offesa». Non ci sono soluzioni facili, ma secondo Massimo una strada percorribile sta nell’utilizzo della tecnologia. «Tutti pensano che io abbia speso un patrimonio per realizzare Nona, in realtà non è costato nulla, se non tanta fatica. Al giorno d’oggi basta una buona attrezzatura e saper crackare il software della videocamera per avere un’altissima qualità».
Bertolucci, David Fincher e J.J. Abrams sono alcuni dei registi che lo hanno influenzato nel suo lavoro. Uno tra tutti, però, rimane più di ogni altro fonte di ispirazione per l’autore: Steven Spielberg. «Lo squalo è un libro di testo, ecco, per imparare il cinema bisognerebbe studiare Lo squalo, inquadratura per inquadratura, è perfetto!».
Tra King e Spielberg il discorso non poteva che finire allora su Stranger Things, la serie tv ideata dai Duffer Bros. e distribuita dalla Netflix, su cui Massimo ha le idee chiare: «Il segreto del successo è la sua trasversalità: è una storia estremamente pulita, ma con degli argomenti affascinanti. Stranger Things non vuole strafare. Negli anni Ottanta c’erano una marea di prodotti del genere, con dentro l’idea che i perdenti comunque sia ce la fanno. Questa è una cosa che io adoravo del cinema americano. La vita è una cosa difficile, per questo tu puoi provare empatia per questi personaggi. C’è poi un’idea di amicizia, di crescita, il passaggio all’età adulta che un po’ è andata persa in questi ultimi anni. Un approccio con l’umanità che è venuto a mancare».
Tra passato e futuro, tra Milano e la Spagna, il giovane regista è adesso a lavoro su altri progetti, tra cui un imminente lungometraggio che vedrà la luce nei primi mesi dell’anno prossimo. Il titolo è semplice quanto evocativo: I Kill Monsters. «È la storia di una ragazza che vive in un mondo tutto suo, che si è inventata lei. Volevo inserire l’elemento psicologico, più profondo, associato ad una vera e propria storia di mostri. Sarà un qualcosa di metaforico che riprende il concetto dell’hikikomori giapponese [il termine viene usato per riferirsi a quella cospicua fetta di popolazione nipponica, perlopiù giovanile, che per diverse ragioni decide di ritirarsi dalla vita sociale, cercando l’isolamento totale]. Ho poi un’altra idea in cantiere, che tratta il tema dei vampiri ma in maniera molto particolare su cui non voglio ancora svelare niente. La speranza è quella di vederli entrambi distribuiti e di guadagnare visibilità, anche all’estero, continuando a fare il cinema che mi piace in maniera indipendente».

Riccardo Scano

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