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Café Society

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VOTO: 6

Le cose cambiano (ma non troppo)

Che Woody Allen, da un po’ di tempo a questa parte in modo più accentuato, usi il mezzo cinematografico per filosofeggiare sulle faccende del mondo, non è cosa esattamente nuova. Superata la fatidica boa degli ottant’anni nel pieno delle proprie facoltà intellettive (beato lui!), la tentazione di rendere edotta la propria platea di ammiratori a proposito di ciò che si è imparato nella vita deve essere davvero forte. Ulteriore tassello di questa tendenza “socratica” – citiamo Socrate come figura di riferimento in materia perché evocata con cognizione di causa dallo stesso Woody Allen, voce narrante del film in questione – è Café Society, ultima fatica del nostro a giungere in sala dopo il consenso critico ottenuto al Festival di Cannes 2016.
Rispetto al penultimo Irrational Man (2015) ci si muove su un registro apparentemente più leggero, sospeso tra romanzo di formazione e conoscenza della vita. Anche in questo caso nessuna novità: ad Allen è sempre piaciuta la cosiddetta alternanza di generi e tonalità, talvolta sperimentata addirittura nel medesimo lungometraggio con risultati esaltanti, come ad esempio nel capo d’opera Crimini e misfatti (1989). In Café Society ci si immerge senza difficoltà nel tipico universo alleniano: la variegata New York ebraica contrapposta alla Los Angeles brulicante di sole, dolci fanciulle e ricchezza economica; il percorso iniziatico alla vita – siamo negli anni trenta – del giovane Bobby (Jesse Eisenberg) con annessa parabola esistenziale dall’esuberanza hollywoodiana di gioventù sino al ritorno all’ovile da uomo maturo (?) con tutte le conseguenze della situazione da affrontare. Proprio nella capacità della sceneggiatura di cogliere le sfumature di tali sommovimenti, affiora l’ovvia prevedibilità di un autore che si “ostina” a raccontare storie usando sempre il medesimo modus operandi, piegando cioè i personaggi alla propria concezione del mondo. Fatto scontato, si dirà; tuttavia, nell’occasione, non si va oltre la normale routine narrativa. Così non ci si entusiasma nell’assistere alla love story tra Bobby e Vonnie (Kristen Stewart), quest’ultima contesa anche dallo zio Phil Stern (Steve Carell), potente press-agent nel dorato mondo de La Mecca del Cinema. Il triangolo sentimentale è davvero così risaputo, anche nella sua evoluzione, che Allen sente il bisogno di alleggerire – si fa per dire – umoristicamente il tutto dedicando la dovuta attenzione alla famiglia ebraica di Bobby, con le consuete battute fulminanti di umorismo tipicamente yiddish (che ovviamente costituiscono un piacevole marchio di fabbrica…) ed un fratello maggiore gangster che elimina sistematicamente ogni possibile rogna sotto un quintale di cemento. E francamente sorridere di omicidi, sia pure permeati di black humour, ci sta un po’ meno…
Dove si comprende però appieno che Café Society non è il glorioso amarcord che avrebbe potuto essere trent’anni orsono – di cui Radio Days (1987) resta un fulgido esempio – lo si evince con chiarezza nel bellissimo finale: Woody Allen sente il peso degli anni ed il passato non è più affettuosa rivisitazione ma presa d’atto di ciò che la vita ha riservato mentre volge al suo termine. Disillusione e rimpianto si leggono sui primi piani di Bobby e Vonn, separati appunto dalle centinaia di miglia che dividono New York e Los Angeles, in una sequenza – forse l’unica dell’intero film – capace di far emozionare finalmente penetrando all’interno dell’animo dei suoi personaggi. Ai quali danno giusto rilievo il solito, ottimo Jesse Eisenberg, ingenuo giovanotto per nulla in grado di evitare i numerosi trabocchetti della vita e soprattutto un’intensa Kristen Stewart, in crescita esponenziale nel corso di una carriera artistica in cui rischiava di essere marchiata a vita dagli ingombranti tratti di Bella Swan della saga di Twilight. Menzione d’onore anche alla splendida fotografia di Vittorio Storaro, cangiante nei colori e nella luce a seconda dei luoghi e della partecipazione emotiva dei personaggi; perfetti anche scenografie (Santo Loquasto, as usual) e costumi d’epoca. E se le maestranze tecniche assurgono a protagoniste dell’opera – non ce ne vogliano tali professionisti di inestimabile valore – significa che al film manca qualche ingrediente in grado di catalizzare l’attenzione dello spettatore non disattento. Forse perché da Woody Allen, dopo ben cinquant’anni di onoratissima carriera registica, ci si aspetterebbe ogni volta una propensione al rischio che in Café Society si fa davvero molta fatica ad intravedere. Per la felicità dei fedelissimi che accettano lo scorrere del tempo fino ad un certo punto.

Daniele De Angelis

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