Il Cinema, quarant’anni dopo
Con il suo Chambre 999, che riprende Camera 666 di Wim Wenders, il documentario che il regista tedesco realizzò quarant’anni fa con interviste a colleghi, ha rappresentato un caso all’ultimo Festival di Cannes. Oltre alla presentazione, nella sezione Cannes Classics alla presenza dello stesso Wenders, è stata organizzata anche una conferenza stampa con vari ospiti.
Lubna Playoust ha finora diretto alcuni corti; è anche attrice e sceneggiatrice. L’abbiamo incontrata a Cannes.
D: Rispetto al film di Wenders la stanza del titolo ha un numero diverso. Non hai girato quindi nella stessa stanza?
Lubna Playoust: Non è la stessa ed è un altro hotel, il Mariott. Non mi sembrava fosse una cosa importante da mantenere. Era importante invece rispettare l’inquadratura. Anche se il mezzo di ripresa è diverso, volevo che si potessero sovrapporre le immagini. Anche perché abbiamo il progetto di far vedere i due film insieme. L’idea era quella di fare un film che fosse un ritratto della nostra epoca, ma che fosse anche valido per il futuro. Ma anche di permettere un paragone con quarant’anni fa, perché l’anno scorso, quando ho girato il film, erano passati esattamente 40 anni da Camera 666. L’inquadratura doveva sovrapporsi in modo da poter vedere cosa era cambiato, anche solo il televisore, in una stanza d’albergo dove si pone questa domanda sul cinema. Il fatto che il quadro sia largo, e che tutti siano messi esattamente nella stessa situazione, era un modo per averli tutti allo stesso livello, tenendo quella stessa distanza che gli concedeva abbastanza spazio per vivere, per rappresentarsi. Era già una situazione soffocante per loro. Ognuno di loro ha avuto un modo diverso di esistere in questa stanza.
D: Su tutte quella di Kirill Serebrennikov che, invece di rispondere fa una sorta di performance…
Lubna Playoust: Lui che non parla, che è come il cinema muto, un po’ come Chaplin, ha grande impatto sulla gente, attrae. Sarà anche perché avvertiamo tante cose per il suo lavoro, in quanto russo, e la sua situazione.
D: Perché hai sentito questa urgenza di fare questa operazione?
Lubna Playoust: Io sono una giovane regista, non ho molta esperienza. Sono circondata da queste domande, le sento ogni giorno. Che riguardano il cinema, il modo di farlo, di finanziarlo, di distribuirlo, di farlo vedere. Non non solo: la questione riguarda il mondo che sta andando avanti molto velocemente. Come dico all’inizio del film, ci sono tante domande, tanti discorsi, ma bisogna avere le idee più chiare. Di avere risposte più articolate su questo tema. Invece che dei semplici tweet, o cose buttate lì. Bisognava mettere insieme questi modi di pensare, di fare film, di avere fede nel cinema. Come quarant’anni fa, quando, si capisce dal film di Wenders, c’era un’analoga ansia. Era per me anche un modo per andare avanti con il mio lavoro, con questi pensieri in mente. Tra quarant’anni potrebbe toccare a nuovi registi. Il bisogno di dialogare oggi è essenziale. Oggi manca un po’ questa voglia di partecipazione.
D: Parliamo della realizzazione. Come hai avuto i finanziamenti al progetto?
Lubna Playoust: Era un’idea che coltivavo da un po’. L’anno scorso ho capito che fosse giunto il momento. Tutti parlavano della morte del cinema. Sapevo che all’MK2, con cui già lavoro, erano interessati a questi soggetti, e infatti loro stessi mi hanno suggerito di farlo, perché anche secondo loro era il momento giusto. Poi ho provato a chiedere alla Wim Wenders Foundation se fossero d’accordo sul progetto. Abbiamo chiesto l’aiuto di Thierry Frémaux per facilitare le cose durante il festival. Quando ha visto il progetto ha detto che ci avrebbe aiutato. Non ci hanno mai imposto chi intervistare né il modo di farlo. Abbiamo lavorato in autonomia. L’appoggio del festival è stato determinante perché è una grande macchina che va veloce. Abbiamo trovato l’ultima camera disponibile, al Mariott, abbiamo mandato una lettera a Wim Wenders spiegando le motivazioni. Lui ha risposto semplicemente che avrebbe dato il beneplacito. Avrei così potuto ricreare alcune cose del suo film, riprenderlo come un principio. Lui poi non ha interferito, si è limitato a chiedere notizie, ogni tanto, su come stesse procedendo il lavoro. Ci siamo visti un paio di volte. Ora, per la presentazione qui a Cannes, ha acconsentito a venire per il Q&A, cosa che non aveva fatto nell’82. Lui mi ha dato molta fiducia per fare il film.
D: Quello che colpiva in Camera 666 era un mix di autori diversi. C’erano i più importanti autori europei, ma anche Spielberg in rappresentanza di Hollywood. Anche tu hai messo Cronenberg come Serra. Ma forse oggi non c’è più quella separazione. Che ne pensi?
Lubna Playoust: Non conosco i dettagli su come Wim selezionasse i registi. C’erano i suoi amici, del gruppo dei tedeschi, ma anche registi che non conosceva. E registi che fanno film con grandi budget. Spielberg sosteneva che non si potessero più fare un film entro una soglia di budget minima, e poi sottolineava come tutti volessero dei film che corrispondessero a un tipo di storia. Ed era un’epoca in cui i film di Spielberg, così come Star Wars, erano ancora nuovi. Oggi le cose sono molto cambiate. Oggi è completamente cambiato il sistema di produzione, i canali produttivi sono diversi. Anch’io mi chiedo cosa si debba fare. Proteggere le cose molto indipendenti o accettare il sistema delle piattaforme? Ruben Östlund sostiene la possibilità di allargare gli sguardi. Hollywood ha sempre voluto ripetere dei modelli collaudati. Oggi arrivano opere da cinematografie nazionali che prima non erano moto viste, dall’Africa, dal Nord Europa. Prima forse si temeva che non sarebbero stati capiti all’estero. Adesso si spazia verso una maggiore diversità, ma le storie devono essere adattate per il pubblico locale. Adesso il problema sta nel proporre sguardi nuovi, e, come dice Clément Cogitore, abbiamo sempre a che fare con dei prototipi.
D: Quando parla Wenders, per esempio, ci sono momenti che definiremmo dei fuori onda, che normalmente sarebbero tagliati. Perché non l’hai fatto?
Lubna Playoust: Dovevo lasciare loro lo spazio per pensare. Io volevo apprendere ciò che veniva detto ma anche il modo in cui veniva detto. Wenders, anche parlando, anche con questa pensiero molto costruito, finisce per essere sopraffatto dalla sua propria negatività, oppure dalla sua nostalgia. Anche per Godard succedeva ma con una certa manipolazione. Lui diceva: «Io sono davanti alla camera ma mi penso dietro la camera». Alla fine Wenders si descrive come molto negativo, ma io vedo in questa negatività qualcosa di molto costruttivo. Un modo di dire alla gente: ci dobbiamo svegliare. È stato importante per me vedere come ognuno si posizionasse davanti a un certo oggetto. Alcuni sono stati messi di fronte alla loro non-risposta a queste domande. E il dispositivo stesso è messo di fronte a questo. Qualcuno dei registi mi ha detto, di fronte a questa domanda, di avere in loro risvegliato qualcosa.
D: Nel film di Wenders non c’erano didascalie a indicare chi stesse parlando. Fu anche criticato per questo, perché non tutti i registi erano noti. Tu invece le hai messe. Come mai?
Lubna Playoust: Tutti mi dicevano di metterli, ma io inizialmente non volevo. Faceva parte delle regole che avrei voluto rispettare del documentario di Wim. Poi a un certo punto mi sono convinta, visto che talmente tanta gente mi ha detto di metterli. Non volevo che fosse un ostacolo alla fruibilità del film. Se il film è presentato al cinema, non è che uno può fermare la proiezione per identificare chi parla. Si può fare con l’homevideo. Ma non volevo che la fruizione potesse essere bloccata da questo tipo di situazione. Il mio film dura di più di quello di Wim, e ho il doppio dei registi, una trentina. Il pubblico deve rimanere concentrato sapendo chi sono. In modo che alla fine non possa dire: «Ah, chi è che aveva detto questo?». Prima li conoscevamo meglio perché erano dei mostri sacri del cinema. Ora non c’è più questa sacralità. Possiamo amare i film di un regista, anche se il suo modo di rispondere o di essere non ci piace tanto. O ci interessa più una regista che non conoscevamo.
D: Purtroppo il grande albero secolare ripreso da Wenders è morto. Questa cosa sembra molto metaforica, non credi?
Lubna Playoust: Avevo già cominciato a cercarlo quando, l’anno scorso, ero venuta a Cannes a girare. Su instagram la Wim Wenders Foundation aveva fatto un gioco chiedendo di ritrovare quell’albero. E un fan ha messo la geolocalizzazione precisa. Ci siamo andati, e l’ho visto a terra. Era molto emozionante. Wim prima mi aveva detto: «Non so come sarà diventato questo posto, all’epoca non c’era niente, solo l’autostrada». Abbiamo trovato la stazione del gas che si chiamava ancora Le cedre. Rientra in questa negatività, anche la risposta che do nel film, è così. Quest’albero avrebbe dovuto essere testimone del cinema che sarebbe morto prima di lui. Ora racconta un’altra cosa. Perché comunque un albero morto non è mai morto. Dà sempre cose da mangiare alla vita intorno.
Giampiero Raganelli