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Instant Family

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VOTO: 6.5

Sintonia cosmica

Capita spesso che sia la vita e le esperienze vissute sulla propria pelle a suggerire ai registi e agli sceneggiatori di turno una storia da portare sul grande schermo. Ne sa qualcosa Sean Anders che per la sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Instant Family, distribuito nelle sale nostrane a partire dal 21 marzo da Paramount Pictures dopo il buon risultato ottenuto al box office (uscito a metà novembre, ha incassato finora negli Stati Uniti 67,3 milioni di dollari, oltre 117 in tutto il mondo), ha attinto a piene mani dal suo vissuto. La pellicola, infatti, è ispirata a fatti realmente accaduti al cineasta statunitense e a sua moglie Beth, con il primo che al fianco del collega di scrittura John Morris li ha rielaborati dando origine al plot, alle dinamiche e alla galleria di personaggi che lo animano.
Nascono da qui Pete e Ellie Wagner, una coppia sposata da diversi anni che per quanto ancora felice sente fortemente la mancanza di un figlio. I due coniugi decidono così di rivolgersi a un istituto che ospita bambini e adolescenti senza famiglia e accolgono in casa per un periodo di prova l’adolescente Lizzie. La ragazza ha però due fratelli minori, Juan e Lita, e Pete e Ellie si ritrovano così genitori improvvisati di tre figli di diverse età. Volenterosi e pasticcioni, i due conquistano a poco a poco l’affetto dei piccoli Juan e Lita, ma si scontrano duramente con la ribelle Lizzie. E quando la madre naturale dei ragazzi richiede a un giudice la custodia dei figli, Pete ed Ellie rischiano di perdere la loro nuova famiglia così faticosamente costruita.
Dopo i due capitoli di Daddy’s Home, per Anders continua dunque il percorso nella commedia casalinga che ruota e si sviluppa intorno al tema della famiglia e dei legami biologici e non, nello specifico concentrando l’attenzione sui delicati rapporti che uniscono genitori e figli, ma anche sul bisogno di amare ed essere amati. Il fatto che si tratti di un racconto che ha preso forma e sostanza da qualcosa di personale lo rende un film sentito e capace di toccare le giuste corde attraverso una serie di scene che strappano sorrisi o inumidiscono gli occhi. Ciononostante c’è la tendenza a scivolare un po’ troppo nei sentimenti a buon mercato, alternandoli a un politicamente scorretto che rende il tutto più piacevole e meno mieloso. In tal senso, si avverte un po’ troppa indecisione su quale strade percorrere in un’opera che affronta in chiave satirica il mondo delle adozioni e lo fa spostando il baricentro più sugli affidatari e sul percorso da compiere per imparare l’arte di esser genitori nella speranza di diventare una famiglia.
Tale indecisione rappresenta, alla pari dell’eccessiva durata (118 minuti quando nell’economia generale ne sarebbero bastati 90), il tallone d’Achille di un film che si colloca perfettamente al centro tra la tipica pellicola per famigliole con morale al seguito e la commedia scorretta con il pelo sullo stomaco. Le battute al vetriolo funzionano quando vengono ben indirizzate (vedi la scena della giornata delle adozioni al parco o quelle dei gruppi d’ascolto) e sono la cartina tornasole del vorrei ma non posso spingermi oltre. Peccato perché una spinta più decisa sul pedale dello humour scorretto avrebbe giovato e non poco al risultato finale, nel quale il registro comico della coppia formata da Mark Wahlberg e Rose Byrne genera buonissimi frutti e trova la giusta complicità nelle interpretazioni di Isabela Moner, Octavia Spencer e Margo Martindale.

Francesco Del Grosso

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