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I’m not a Serial Killer

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VOTO: 7

Adolescenza “imbalsamata”

Se hai sedici anni e vivi in uno sperduto paesino del Minnesota dove gli inverni sembrano senza fine, non puoi certo dirti fortunato. Lo sei ancora meno se ti manca una figura di paterna di riferimento e mamma e zia, per vivere, mandano avanti una ditta di pompe funebri dove vieni avviato alla macabra professione di tassidermista di cadaveri. A corollario del tutto, strane e ferali uccisioni con raccapriccianti mutilazioni arrivano a succedersi in città. E il povero John Wayne Cleaver – questo il nome del ragazzo dai comportamenti un po’ strani – potrebbe anche finire sull’elenco dei sospettati. A meno che…
Curioso oggetto cinematografico, questo I’m not a Serial Killer dell’irlandese Billy O’Brien, transitato a mo’ di meteora nella sezione Alice nella Città dell’undicesima Festa del Cinema di Roma.Tratto da un popolare (in patria) romanzo dello scrittore statunitense Dan Wells, il film ne attenua i tratti ironici per concentrarsi pressoché esclusivamente sulle atmosfere malsane di un racconto di formazione molto sui generis, intriso di follia e orrore. Le ossessioni del giovane protagonista si sovrappongono a quelle del regista, in tutta evidenza molto intrigato dal genere come testimoniano i suoi precedenti lungometraggi Isolation (2005) e Scintilla (2014): mutazioni genetiche e presenze aliene – in contesti alienanti a dir poco – costituiscono l’ossatura di un’opera in cui non mancano i momenti di stasi, capaci però anch’essi di lasciare un’angoscia latente. Infatti O’Brien gioca forse con eccessiva insistenza sul punto di vista principale del film, girato tutto seguendo le coordinate in soggettiva dettate dal personaggio principale. Lasciando così il dubbio, fino all’incredibile finale, che si tratti di una sua allucinazione piuttosto che un seguire la realtà effettiva. Non c’è però dubbio che I’m not a Serial Killer centri il bersaglio simbolico di trasformarsi in un apologo sulla criticità del crescere. A far veramente paura – un po’ come accadeva nel quasi coevo cult It Follows (2014) di David Robert Mitchell, dove però veniva ottimamente usata la metafora sessuale, qui del tutto assente – è infatti il senso di solitudine e di vuoto che attanaglia lo sventurato ragazzo, rafforzato dall’azzeccata location dove il bianco della neve riesce a creare una sorta di surreale filtro alla diegesi. Il classico mostro della porta accanto – benissimo impersonato nell’occasione dall’ottimo Christopher Lloyd, già leggendario Emmett Brown della saga di Ritorno al futuro – potrebbe essere insomma chiunque, talmente facile sarebbe avere qualche squilibrio mentale in contesti del genere. Una vena di spaesata follia ben rimarcata dall’interpretazione del giovane Max Records  – bambino nell’ottimo Nel paese delle creature selvagge (2009) di Spike Jonze – nonché un’ulteriore conferma delle ambizioni del cinema di O’Brien, cineasta che dimostra un amore per il genere supportato da sottotesti tutt’altro che banali. Peccato solo che I’m not a Serial Killer talvolta dimostri appieno l’esiguità del budget sia in termini di regia che di effetti speciali, visto che non mancano momenti splatter. L’idea a monte però è presente, e il gioco del gatto e del topo funziona in termini di suspense, fino alla più o meno sconvolgente “epifania” dell’epilogo, capace di sancire la definitiva crescita di John Wayne Cleaver. Dove condurrà questa specie di rito di passaggio nella vita del protagonista resta, comunque, una grossa incognita che va ad indubbio merito di I’m not a Serial Killer, film meritevole sia di recupero che di analisi attenta nelle proprie sfumature.

Daniele De Angelis

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