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Kubo e la spada magica

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VOTO: 8

L’arte dello storytelling animato

Quest’anno il Festival di Roma è stato anche valida vetrina per alcuni film d’animazione capaci di lasciare il segno. Almeno un paio le eccellenze in campo. Da un lato l’ennesimo gioiello targato Studio Ghibli, ovvero La tartaruga rossa di Michael Dudok de Wit, film che aveva già deliziato la platea di Cannes e rispetto al quale si è espressa con grande entusiasmo, su CineClandestino, la nostra Ginevra Ghini. Ma da segnalare c’è un’altra anteprima che ci è entrata prepotentemente nel cuore. Il lungometraggio in questione è Kubo e la spada magica (in originale Kubo and the Two Strings) animazione in stop motion dove l’arte dello storytelling si fonde alla perfezione con la rielaborazione di temi e spunti iconografici originari dell’Estremo Oriente.

Prodotto in America dallo studio d’animazione Laika Entertainment, che ci ha già regalato perle come Coraline e la porta magica, l’avventuroso Kubo and the Two Strings s’appoggia alla stop motion per ricreare atmosfere da leggenda in un Giappone arcaico, favolistico, dove gli uomini ancora convivono con spiriti e altre creature magiche, i cui poteri possono sconvolgere la vita di interi villaggi.
Come si apprende all’inizio il piccolo Kubo è scampato a stento assieme alla mamma, anche lei esperta di arti magiche, all’ira di certi demoni interessati a privare il bimbo dell’unico occhio rimastogli, dopo essersi già impossessati del primo. Bella è proprio la scena della fuga, con un’onda gigantesca (il Giappone è terra di tsunami, del resto) a minacciare la sopravvivenza di Kubo e di sua madre, la quale sarà però in grado di sventare anche quel pericolo. Il ragazzino cresce così al sicuro in una grotta e con una dote particolare: saper intrattenere la gente del più vicino villaggio, accompagnando con uno strumento musicale storie di mostri ed eroi che rimandano alla triste esperienza toccata in sorte alla sua famiglia, storie rese poi “vive” grazie a un incantesimo che, durante la rappresentazione, riesce ad animarne i personaggi in forma di origami, ossia le tradizionali figure ottenute piegando fogli di carta.
Ma quel precario idillio è destinato a concludersi bruscamente, allorché gli spiriti maligni che gli danno la caccia da tempo riusciranno finalmente a trovarlo. E allora avrà inizio una nuova e più grande avventura…

Sono davvero tante le scelte stilistiche e narrative che nel film ci hanno affascinato. Pare, anzi, che tutto o quasi vi funzioni alla grande. Dal tono fiabesco e sognante con cui sono stati affrescati i diversi ambienti, fino all’umanità così genuina presente già nelle espressioni assegnate ai volti dei personaggi; umanità ribadita poi dai contenuti di un racconto avvincente, che usa la sua cornice magica per rendere ancor più intensa la piccola odissea affrontata dal protagonista, con grande coraggio, pur di rimettere insieme i pezzi della propria famiglia (e della stessa storia da lui raccontata per anni ai paesani, senza che se ne conoscesse ovviamente il finale). Esempio di storytelling dalle tonalità ora tenebrose e ora delicate, Kubo and the Two Strings dispiega con una certa fantasia le possibilità offerte dalla stop motion, tecnica che durante i titoli di coda viene anche omaggiata attraverso un backstage memorabile. E sempre nel corso dei curatissimi titoli di coda si può ascoltare una cover molto bella di While My Guitar Gently Weeps dei Beatles, ciliegina sulla torta e appendice ideale di una colonna sonora ugualmente vivace, appropriata, la cui piacevolezza ci spinge inoltre a ricordare i meriti del compositore italiano Dario Marianelli.

Stefano Coccia

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