Certi amori non finiscono
Tra i film dell’ultima Festa del Cinema di Roma che sono stati accolti con più scetticismo, se non addirittura con qualche sghignazzo, vi è oggettivamente The Secret Scripture (nella titolazione italiana semplicemente Il segreto). Di certo non ci si è ritrovati di fronte il Jim Sheridan più ispirato, anzi, l’esatto contrario. E nel condensare frettolosamente certe svolte narrative contenute nel testo di partenza, ovvero l’omonimo romanzo di Sebastian Barry che in tanti ci dicono ottimo, si assiste di sicuro a soluzioni improbabili, di grana grossa, poste in scena con un’enfasi e una prosopopea che nuocciono evidentemente alla tenuta del racconto. Eppure, sarà anche per il persistente affetto nei confronti dei passati capolavori del regista irlandese, qualcosa di autentico, qualche riflesso dei temi importanti e delle solide intuizioni narrative presenti nella sua filmografia, lo abbiamo anche ravvisato nei contorni sfumati di una messa in scena così demodé.
Il regista de Il mio piede sinistro (1989) e Nel nome del padre (1993), tanto per citare le pietre miliari di un percorso artistico che aiutò a far conoscere a apprezzare il cinema dell’Irlanda nel resto del mondo, si rapporta qui a una trama romanzesca impostata su due piani temporali diversi, affidandosi ad alcuni magnifici interpreti (in particolare le due attrici chiamate a impersonare la protagonista, una da vecchia e l’altra nel fiore degli anni) per fare il pieno di emozioni, presso quel pubblico ancora attratto da certi racconti passionali e disperati.
All’inizio di The Secret Scripture prendiamo confidenza con una Roseanne McNulty anziana, interpretata con classe immensa da Vanessa Redgrave, che le autorità locali vorrebbero far sloggiare da una fatiscente struttura psichiatrica destinata a chiudere presto, struttura dove la donna è stata reclusa per decenni e ha probabilmente subito vessazioni indicibili. Soltanto uno psicologo più sensibile di altri vorrà far luce sulla sua condizione, sui suoi trascorsi. E ciò che verrà fuori dalle sue incerte testimonianze, abbinate al ritrovamento di una specie di diario cifrato, è una parabola esistenziale allucinante ma molto rappresentativa di ciò che poteva accadere nella martoriata Irlanda, in anni come quelli della Seconda Guerra Mondiale. Tra tensioni politiche, oppressione religiosa e antichi giochi di forza volti a sottomettere la volontà delle donne più libere.
La Roseanne McNulty giovane e ribelle è impersonata col giusto vigore da Rooney Mara. Accanto a lei, nel lungo e movimentato flashback che ne racchiude le peripezie, altre presenze gagliarde di un cast che al maschile può contare su diversi nomi validi, da Eric Bana (presente però nella cornice iniziale) a Jack Reynor fino a Theo James, ovvero l’ipocrita Padre Gaunt.
Già. Perché se si è soliti dire che nei gialli di una volta il colpevole è sempre il maggiordomo, in qualsiasi film ambientato in Irlanda che si rispetti il “colpevole” deve essere per forza di cose un sacerdote o una suora. Magari entrambi. E sarebbe a nostro avviso disonesto ipotizzare il contrario, visto il ruolo nefasto svolto dalla chiesa cattolica nella storia recente dell’isola…
Ecco, sono forse questi spunti ciò che di positivo abbiamo rintracciato, con un po’ di fatica, in un film di Jim Sheridan che regala anche tracce amabilmente retrò nella confezione, apprezzabile cura scenografica, ma che appare al contempo fin troppo compiaciuto e diremmo quasi “impagliato”, in questa sua impostazione registica vecchio stile. E ad accentuare ulteriormente un’impressione così stantia, vi è senz’altro la colonna sonora, ridondante e francamente insopportabile.
Stefano Coccia