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The Lobster

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VOTO: 7.5

Paradossali distopie

Piccolo test riservato allo spettatore, cinefilo e non, di The Lobster, primo film girato in lingua inglese (e non solo) e con cast internazionale – tra gli altri Colin Farrell e Rachel Weisz, perfettamente a loro agio in una storia dai contorni persino fiabeschi – dal regista greco Yorgos Lanthimos: chi riesce a fondere in uno solo aggettivi quali controverso, beffardo, ironico, grottesco, ostinato, poetico, glaciale, coerente e umorale entrerà in possesso della chiave di accesso al cinema del cineasta ellenico. Missione perlopiù impossibile, come facilmente si comprende. Ed è un bene. Poiché anche The Lobster, al pari di Kynodontas (Dogtooth, 2009) e Alpeis (Alps, 2011), parte da un presupposto di base per poi infrangersi in mille e più rivoli da cercare, scoprire e valutare con l’attenzione che si riserverebbe ad una ricerca scientifica su una malattia rara.
Il punto di partenza, come sempre accaduto nel cinema di Lanthimos, è la fascinazione per la finzione, la messa in scena, l’inganno, la menzogna più pura e perciò quasi innocente. Ovviamente nell’ambito del film stesso, cosa che dà origine ad un potenzialmente infinito gioco di incastri a mo’ di scatole cinesi. Lo scarto evidente, in The Lobster (letteralmente l’aragosta: chi vedrà il film almeno in parte comprenderà il senso ultimo di questo strano titolo…), consiste nel fatto che se nelle altre due opere citate la cosiddetta “rappresentazione forzata” si manifestava in ambito familiare (Kynodontas) oppure in quello della “libera impresa” (Alpeis), stavolta entra in gioco qualcosa di molto più in alto, cioè le leggi che regolano la convivenza tra le persone. La metafora politica si fa quindi più esplicita, diretta e perciò incisiva. Basta dare uno sguardo, anche superficiale, alla trama per capire che Lanthimos ragiona sì per teoremi metaforici piuttosto estremi ma intende comunque raccontare dei mali che affliggono la società di oggi. Solitudine e ipocrisia in primis.
In un futuro distopico la persona single – intesa come non (più) accoppiata/o – ha quarantacinque giorni di tempo da trascorrere in un fantomatico hotel per cambiare il suo status. Dopodiché sarà trasformato d’ufficio nell’animale che la persona stessa sceglierà. Può anche darsi alla fuga, ma in tal modo diventerà oggetto di caccia ed eventuale soppressione in caso di cattura.
The Lobster è purissimo teatro di un assurdo che strada facendo assume connotazioni sinistramente reali. Quali leggi possono orientare le nostre scelte individuali? E fin dove può arrivare una qualsiasi forma di governo a regolamentare la scelta di chi ci sta accanto? Lanthimos sceglie giustamente la strada dell’estremizzazione, del paradosso spinto ai massimi livelli. Il suo “rompicapo” cerebrale risulta tanto affascinante quanto inquietante fino a che si mantiene sul versante essere umano singolo vs. istituzione tesa a disumanizzare, anche nel significato letterale del termine poiché trasforma l’uomo o la donna di turno in animale. Nella primissima sequenza si osserva basiti una donna sparare a bruciapelo ad un cavallo. Da lì parte la ricerca impossibile di senso operata da Lanthimos in The Lobster. Si potrà allora trovare una “volgare” spiegazione al gesto ma mai una logica. Perché il mondo, nella sferzante visione del film, è di propria natura illogico, in quanto somma di individualità inconciliabili per loro stessa natura. Lanthimos, coadiuvato in sede di sceneggiatura da Efthymis Filippou, non fa altro che far emergere tali contraddizioni, realizzando un’opera su cui si potrebbe alternativamente ridere senza freni o versare lacrime amarissime. Soprattutto quando The Lobster, nell’ultima parte contrassegnata da un certo velleitarismo, abbandona i toni apologetici di una lotta senza possibilità di vittoria contro un nemico invisibile (il concetto radicato di istituzione, appunto) e quindi invincibile, per dedicarsi ad un’altra ricerca irrimediabilmente destinata all’oblio: quella dell’essere umano realmente complementare. In altre parole, l’amore. Un sentimento lontano, estraneo, che in The Lobster aleggia più come una minaccia che un rifugio ultimo dai mali del mondo.
Nel cinema di Lanthimos si annida incontrovertibilmente un eccesso di programmaticità che può, a tratti, infastidire. Tuttavia il suo essere urticante al limite del nichilismo rappresenta una merce rarissima, di questi tempi in cui regna l’omologazione più assoluta. Ed è proprio questo assunto, in fondo, che The Lobster combatte con le affilate armi dell’ironia e del gusto per l’iperbole. Teniamocelo stretto.

Daniele De Angelis

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