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Dunkirk

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VOTO: 9

Tra terra, mare e cielo

Oltre il genere bellico. Non stupisce che il cinema sempre esplorativo di Christopher Nolan ancora una volta scavalchi di slancio le barriere di un singolo genere. Ogni opera da lui diretta ha rappresentato un personalissimo viaggio fuori dagli schemi consolidati di tanta cinematografia solo magniloquente. Nel noir Memento (2000) s’indagava a ritroso nella fallacità della memoria dell’essere umano. Nella trilogia dedicata a Batman dietro il Caos e la maschera supereroistica si è infine trovata l’imponderabilità dell’Uomo. In Inception (2010) si abbattevano i confini tra realtà e dimensione onirica, mentre nel penultimo Interstellar (2014) fattori come spazio e tempo divenivano entità relative da elementi inviolabili conosciuti.
Seguendo la scia di tali esempi – e perdonateci le omissioni – Dunkirk può essere definito in molti modi ma non un film di guerra. Se l’impresa, sulla carta impossibile, era quella di coniugare il respiro e l’epicità di un moderno poema omerico, girato peraltro nello splendore formale ormai desueto dei 70mm, con il realismo ad oltranza di una storia di sopravvivenza atemporale sia pure collocata storicamente nell’ambito del Secondo Conflitto Mondiale, ebbene il risultato è stato, ancora una volta pienamente raggiunto. Dunkerque (Dunkirk è la sua anglicizzazione), piccolo paesino francese sulla costa che guarda il canale della Manica, diventa nel film una sorta di “non-luogo”, astratto e perciò universale. Una striscia di terra sabbiosa dove ha trovato provvisorio rifugio lo smisurato contingente di soldati alleati – britannici, francesi, belgi e olandesi – in fuga dall’avanzata tedesca. Correva infatti l’anno 1940, fatidico momento in cui le sorti finali del conflitto erano tutt’altro che orientate. Dunkirk, seguendo lo sguardo di Nolan, sovrappone alla perfezione la riuscita di un’opera cinematografica “impossibile” a quella miracolosa del salvataggio di migliaia di esistenze ormai segnate. Narrativamente diviso in tre segmenti che nel finale, in ossequio al consueto crescendo emotivo presente in ogni lungometraggio di Nolan, vanno ad intrecciarsi, Dunkirk organizza il proprio virtuosistico racconto all’interno di quell’esile e simbolica linea che separa il sollievo della salvezza dall’oscenità della morte. Sulla terra si ammassano i militari in cerca di scampo; per mare si dipanano i vari tentativi di porre rimedio ad una situazione in apparenza compromessa; dal cielo i caccia britannici cercano di rintuzzare gli attacchi nemici.
La scelta radicale del Nolan sceneggiatore è quella di non mostrare mai, appunto, il nemico. Si è a conoscenza, ovviamente, della sua connotazione per motivi storici; e tuttavia in Dunkirk la guerra diviene il pretesto narrativo per mostrare la conflittualità insita nell’essere umano piuttosto che spettacolarizzazione della sua lotta contro qualcuno. Il giovane soldato inglese Tommy (bravissimo il semi-esordiente Fionn Whitehead), di cui seguiamo per intero le vicende, assurge a massimo esempio di un’innocenza brutalizzata dalla violenza bellica, in cerca solo di una via di salvezza. Nel Caos assoluto è spesso la casualità di una scelta improvvisata dall’istinto a significare vita piuttosto che morte. Perciò l’emozione empatica dello spettatore corre insieme a lui. L’aviere Farrier (Tom Hardy, pilota di caccia in maschera a mo’ di supereroe e pienamente riconoscibile solo nel memorabile epilogo) è l’eroico “angelo custode” che dai cieli prova ad invertire i destini di un’epopea segnata. All’ammiraglio Bolton (un assai convincente Kenneth Branagh) il compito di spiegare la situazione da un punto di vista militare, facendo le funzioni del coro nella classica tragedia greca, tanto per rendere meglio l’idea di quali siano i punti di riferimento del film. La cui natura prettamente umanista è rappresentata alla perfezione dal personaggio di Mr. Dawson (ennesima prova maiuscola di Mark Rylance), straordinaria incarnazione di come una guerra possa essere combattuta e forse vinta solamente grazie all’indispensabile supporto, fisico e morale, dell’Uomo Comune. Dal basso quindi. Perché nel film le “alte sfere” di potere non vengono quasi menzionate. Per tali motivi la forza dirompente di Dunkirk risiede in una coralità di racconto del tutto incapace di prevedere ruoli marginali, scelta “politica” esaltata dal sublime talento di Nolan per un montaggio alternato, peraltro con studiate discrepanze temporali, di alchemica precisione.
Possibili difetti. Qualcuno rimprovererà a Dunkirk un eccesso di sciovinismo di matrice britannica. Tesi che decade spontaneamente allorquando si pensa al film come sorta di romanzo atemporale incentrato sulla resistenza umana ad una barbarie che risiede ovunque nel mondo, ieri, oggi e domani. Fino alla fine: perché le battaglie giuste, comunque troppo spesso cruente, possiedono un colore solo incidentalmente. E l’unico che rimane è sempre quello rosso, del sangue di chi non c’è più. Un messaggio che arriva dalla potente ricerca di (una) Verità da parte di un cineasta il quale, malgrado tutto, attraverso la Settima Arte continua a credere in una possibilità di catartica redenzione.

Daniele De Angelis

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