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Mammal

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VOTO: 7.5

Insieme oltre la morte

Quanto può essere forte il legame madre-figlio? In che modo può sopravvivere alla distanza, al distacco o, addirittura, alla morte? Non sempre si riesce a trovare una risposta a tale quesito. Eppure, in genere una madre sa sempre trovare, in un modo o nell’altro, una strada per mantenere vivo questo legame. È questo, ad esempio, il caso di Margaret, protagonista di Mammal, secondo lungometraggio della giovane (ma cinematograficamente matura) regista Rebecca Daly (con già una terza opera in cantiere), presentato in anteprima alla 10° edizione dell’Irish Film Festa – la quale prova a modo suo a superare la morte del figlio adolescente – da lei abbandonato insieme al padre quando era ancora in fasce – ospitando nella sua abitazione un giovane ragazzo di strada ferito in seguito ad un pestaggio. Con l’arrivo in casa del ragazzo, dunque, in qualche modo, suo figlio ricomincia a vivere. E non lo fa soltanto attraverso la cicatrice di un parto cesareo, né attraverso le foto sui volantini che lo indicano disperso. Lo fa, stavolta, attraverso un ragazzo in carne ed ossa, un ragazzo della sua stessa età, con problematiche forse simili alle sue e che indossa i suoi stessi vestiti. Un ragazzo che possa permettere alla donna di tornare indietro nel tempo e di rimediare in qualche modo a tutte le mancanze ed agli errori commessi nei confronti di suo figlio.
Non solo, dunque, è il rapporto madre-figlio al centro di questo importante lungometraggio della Daly. Mediante il complesso e ben scritto personaggio di Margaret (impersonata dalla brava Rachel Griffiths) sono soprattutto il senso di colpa, il perdono, la redenzione a fare da colonne portanti. La Margaret qui presentataci, dal canto suo, per impostazione e messa in scena poco si discosta dalla tormentata ragazza in Daisy Diamond, raccontataci nel 2007 da Simon Staho. Con la differenza, però, che, in Mammal, la protagonista non è più vittima dei suoi stessi sensi di colpa, ma, al contrario, lotta, tenta di reagire con tutte le sue forze. Anche a costo di correre grossi rischi. Ed ecco che, piano piano, la messa in scena sembra assumere via via sempre più i toni del giallo, del thriller, con raffinati giochi di luci e di ombre in ambienti angusti all’interno della casa della protagonista, oscure presenza alla porta e, sullo sfondo, una città grigia, cupa, come se qualsiasi cosa al di fuori del rapporto tra Margaret ed il ragazzo fosse già morta. Una città, in fin dei conti, severa e giudicante, che sembra non voler perdonare in nessun caso gli errori commessi.
Ma non è tutto. Dato il tema trattato – e quasi come da copione – un ruolo particolarmente rilevante è stato affidato all’elemento dell’acqua. L’acqua come placenta materna. L’acqua che dà la vita, ma anche la morte. È in acqua che è annegato il figlio di Margaret. È in acqua che la donna è solita trattenere il fiato per provare qualcosa di nuovo, pericoloso e, in qualche modo, liberatorio. È in acqua che, insieme al ragazzo sconosciuto, si riesce a trovare un punto di incontro. Solo in acqua, apparentemente – come anche stanno a suggerirci i cromatismi virati al blu – si riesce a trovare la tanto desiderata pace con sé stessi. Eppure, in Mammal, l’acqua rappresentata è sempre ferma, piatta, non scorre mai, non si rinnova mai. Sia essa l’acqua all’interno di una piscina, di un lago o di una vasca da bagno. Segno che – contrariamente a quanto sostenuto da Eraclito – non tutto scorre. Segno che, in realtà, nulla può cancellare le cicatrici del passato. Certe colpe, certi errori sembrano non trovare mai, in fondo e nonostante tutto, una propria, agognata redenzione.

Marina Pavido

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