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Il ponte delle spie

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VOTO: 8

La Guerra Fredda secondo Spielberg (e i Coen)

Tom Hanks, in un film di Steven Spielberg. Era da parecchio che non accadeva. I due si sono finalmente ritrovati in questo intrigo spionistico, arricchito peraltro dai dialoghi magistrali che i fratelli Coen, autori dello script assieme a Matt Charman, hanno saputo mettere a loro disposizione. Ciò che ne risulta è un piccolo spaccato della Guerra Fredda, ispirato a uno dei tanti scambi di prigionieri avvenuti, in seguito a trattative segrete tra Stati Uniti e paesi del blocco sovietico, sul ponte che all’epoca collegava Potsdam con Berlino Ovest. Lo stile e i toni dell’opera sono oltremodo classici, di grande efficacia anche quando a essere riproposti sono i tratti specifici del noir. Ma nonostante atmosfere così gelide la Guerra Fredda ha anche, nell’ottica di Spielberg, qualcosa di “caldo”, poiché persino in un contesto tanto cinico, inevitabilmente soggetto alle logiche della realpolitik, il grande regista americano ha saputo comunque innestare alcuni aspetti dell’umanesimo di fondo che da sempre lo caratterizza.

La stampa romana aveva già potuto vedere in anteprima Il ponte delle spie (Bridge of Spies nella versione originale), ma si era trattato comunque della versione doppiata. Grande occasione, quindi, per chi come noi lo ha potuto ribeccare fuori concorso al XXV Noir in Festival di Courmayeur, quale evento di chiusura: la copia proiettata era infatti quella in lingua originale con i sottotitoli italiani, il che ci ha permesso di apprezzare meglio sia l’ottimo ritorno di Tom Hanks, sia l’accurata scelta degli altri interpreti. Discorso a parte per il doppiaggio. E avendo visto entrambe le versioni lo possiamo tranquillamente affrontare. Se il lavoro dei doppiatori per gli interpreti principali si è svolto complessivamente bene, qualche dubbio rimane sui piccoli ruoli, specie se legati a realtà linguisticamente allogene come quella russa o quella tedesca della DDR, che offrono maggiori rischi di una caratterizzazione forzata, al limite macchiettistica.
Tornando proprio a Tom Hanks, potremmo persino azzardare che questa rimarrà, in assoluto, tra le sue migliori interpretazioni: tempi perfetti nei dialoghi, un’ironia sottile nel rapportarsi al potere e poi tante altre sfumature, fino al mostrarsi giustamente rigido, risoluto, nei frangenti più drammatici. Così ci appare l’avvocato James Donovan, da lui impersonato splendidamente. Figura realmente esistita, quest’uomo ebbe un ruolo importante prima nell’assistere legalmente la spia sovietica Rudolph Abel (grande anche la prova di un’imperturbabile Mark Rylance), cui si sforzò di assicurare un processo equo; e poi nel trattare la sua liberazione facendone oggetto di scambio con quella di Francis Gary Powers, pilota statunitense catturato in territorio nemico, e di un altro giovane studente di economia, incastrato invece dalle autorità della DDR per essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’ingarbugliata situazione si avvierà non senza i fin troppo prevedibili intoppi verso una conclusione soddisfacente, proprio durante la trasferta dell’avvocato in una Berlino Est inequivocabilmente avvolta dal gelo, resa poi ancora più cupa dalle circostanze: il celebre Muro si trovava allora in costruzione, con le guardie pronte a sparare senza pietà su chiunque tentasse di attraversarlo, senza permesso, per raggiungere la parte Ovest.

Immensa è la maestria registica di Spielberg nel conferire la giusta tensione a ogni momento, avvalendosi in questo della fotografia curatissima di Janusz Kaminski, mentre altrettanto significative sono quelle sottolineature, ben marcate, di cui si è servito lo spirito progressista e democratico del regista statunitense per suggerire luci e ombre di entrambi i sistemi, quello americano e quello sovietico.
Il differente grado di umanità rivelato dall’avvocato protagonista, classico eroe spielberghiano che si oppone alle storture del sistema con l’idea di renderlo più giusto, accettabile, attraverso regole che siano rispettate da tutti, è l’ovvio contrappeso in America dei volti molto meno raccomandabili di certi rappresentanti della CIA o di altre istituzioni, ai quali invece verrebbero meno gli scrupoli più elementari, pur di raggiungere il loro obiettivo.
Tuttavia, c’è da dire che, nel descrivere il grigiore e l’autoritarismo del mondo oltre cortina, il grande regista americano si è spinto anche più in là, andandoci oggettivamente con la mano pesante. Alcune simmetrie narrative, con il loro geometrico scorrere in montaggi alternati che mettono implacabilmente a confronto i due mondi (le rispettive carceri, le barriere più o meno invalicabili), possono forzare un po’ troppo il discorso in direzione antisovietica. Ma questo è in ogni caso un narrare “alla Spielberg”. E anche quando può apparire monolitico, eccessivamente ideologico, incorpora comunque quelle finezze registiche che aprono varchi tra i differenti universi rappresentati, facendovi passare attraverso un più alto interesse per l’essere umano. Lo si può percepire, ad esempio, nell’inquadratura quasi subliminale ma dalla funzione estremamente significativa, rivelatrice, del sorriso scappato a un giovane funzionario della DDR, di fronte alla piccola gaffe compiuta dal suo superiore; sarà da quel semplice primo piano che il personaggio di Tom Hanks prenderà spunto, per instaurare l’estemporaneo rapporto di complicità, utile poi a spostare le trattative verso un epilogo positivo per tutti. Come a rimarcare, per l’ennesima volta, l’importanza dell’azione individuale quale grimaldello per scardinare uno stato di cose ingiusto.

Stefano Coccia

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