Una vita per l’arte
Che il settore artistico sia in crisi ormai da anni, è qualcosa che tristemente sappiamo tutti. Eppure, ogni qualvolta un cinema o un teatro si accingono a chiudere i battenti per sempre, la cosa ci fa sempre molto male. Sulla fine di una determinata realtà che per anni ha intrattenuto spettatori di tutte le età, dunque, si è concentrato il celebre cineasta francese Philippe Garrel nel suo lungometraggio Le Grand Chariot, presentato, in anteprima mondiale, in corsa per l’ambito Orso d’Oro, alla 73° edizione del Festival di Berlino.
Le Grand Chariot (nella titolazione italiana Il Grande Carro), dunque, è un film particolarmente intimo e personale, in cui a svolgere i ruoli dei protagonisti sono proprio i tre figli di Garrel: Louis, Esther e Lena. Per l’occasione, i tre interpretano gli ultimi discendenti di una leggendaria famiglia di burattinai – capitanata dal padre, impersonato da Aurélien Recoing. Non è facile tirare avanti fino a fine mese. Eppure, la passione è tanta. E grazie anche alla presenza della nonna (Francine Bergé) – che si occupa della realizzazione dei vestiti dei burattini, oltre che di fare da memoria storica per la sua famiglia – e dell’amico Pierre (Damien Mongin), la quotidianità va avanti senza particolari intoppi. Almeno fino a quando un evento improvviso non stravolgerà per sempre gli equilibri precostituitisi.
L’amore per l’arte e per la creatività. L’importanza della famiglia, così come degli amici. L’inesorabile passare del tempo. L’elaborazione del lutto. Amori che finiscono e altri che, inaspettatamente, si rivelano molto più solidi di quanto inizialmente potesse sembrare. Il semplice scorrere della vita all’interno di un mondo in cui c’è sempre meno spazio per l’arte e per la bellezza nella sua accezione più pura. In Le Grand Chariot Philippe Garrel ha messo in scena tutto ciò con la consueta grazia e (apparente) leggerezza solito conferire da anni alle sue opere.
Il raffinato bianco e nero – a lui tanto caro – che ha spesso caratterizzato alcuni tra i suoi più celebri lungometraggi, qui viene definitivamente abbandonato per lasciare spazio a una fotografia dai colori neutri, che, insieme a location che sembrano far parte quasi di una dimensione senza tempo, conferiscono alla storia quel carattere nostalgico e contemplativo tipico dei suoi film.
Le Grand Chariot non esita, al contempo, a inferirci forti scossoni emotivi. Eppure, il turbinio di emozioni vissute dai protagonisti ci viene narrato con la massima naturalezza, mentre la macchina da presa osserva, senza mai giudicare, ogni loro azione, ogni loro debolezza. E mentre alcuni possibili triangoli amorosi ci fanno immediatamente pensare ai film della Nouvelle Vague, un forte, fortissimo amore per l’arte in tutte le sue forme è il vero fulcro attorno a cui ruota l’intero lungometraggio. Lo si può vedere dalle espressioni estasiate dei bambini davanti a uno spettacolo di burattini, così come quando vediamo le due sorelle sconfortate davanti alle macerie del loto piccolo teatro, dopo che un temporale lo ha distrutto. Che ne sarà dell’arte e, soprattutto, degli artisti? Nell’esporre teorie piuttosto disincantate, Garrel non manca, al contempo, di infonderci anche una piacevole dose di ottimismo.
Marina Pavido