Le coordinate di uno spazio senza fine
C’è una moltitudine di fili a tessere il meticoloso ordito dell’ultima, sublime, fatica di Paul Thomas Anderson. La prima non ispirata da un testo letterario preesistente dai tempi di Ubriaco d’amore (2002). Non si tratta affatto di un caso. Perché Il filo nascosto (Phantom Thread nella versione originale, cioè Filo fantasma: titolo più esplicitamente aderente alla natura dell’opera) è un lungometraggio tanto intimo quanto provvisto di un senso universale, capace di renderlo un testo aperto ad un numero esorbitante di chiavi di lettura.
In primo piano – almeno a seguire i sommari cenni di una trama che abbraccia moltissimo d’altro – sembrerebbe esserci una storia d’amore. Quella, ambientata nell’Inghilterra anni cinquanta, tra l’affermato stilista Reynolds Woodcock e la giovane Alma, cameriera in un anonimo ristorante di campagna. Paul Thomas Anderson si getta dapprima senza remore nei misteri imperscrutabili della fascinazione reciproca, quindi penetra con delicatezza almeno pari alla sincerità nei meandri di un rapporto tormentato e in apparenza contraddittorio, nel quale il gap generazionale e le differenze sia di background che caratteriali paiono giocare un ruolo decisivo in chiave negativa. E tuttavia lo stato delle cose racconta altro, cioè un’intimità ben più complessa. Ed è nell’analizzare questo specifico frangente che Il filo nascosto diviene qualcosa di magico, un’opera d’arte nel senso più completo del termine capace di descrivere e raccontare ciò che in teoria non sarebbe possibile; e lo fa semplicemente fornendo allo spettatore una mappatura di base sulle traiettorie di un viaggio che non è solo sentimentale, bensì anche filosofico e spirituale. Un movimento esistenziale assieme lirico e doloroso che chiunque ha vissuto, forse senza rendersene conto, nella completa totalità. I due attori protagonisti, in totale immedesimazione nei rispettivi ruoli, travalicano lo schermo, suscitando in chi guarda una gamma di emozioni che va dalla felicità all’amarezza, dall’estasi alla frustrazione. Dall’Inferno al Paradiso. Del resto Il filo nascosto è un film dove gli opposti si inseguono senza requie fino a mischiarsi e confondersi in un unicum straordinariamente denso di significati reconditi. Daniel Day-Lewis impersona in modo magistrale la maledizione della genialità. Con una venerazione per la madre scomparsa che gli ha fornito le sacre stimmate del talento iniziandolo all’arte della moda ci appare inevitabilmente rinchiuso in una rassicurante routine in cui è la sorella a vigilare su questa sorta di prigione dorata. Viene da immaginare un riferimento al tirannico e rapace Daniel Plainview, personaggio principale de Il petroliere (2007), sia pur inserito in un contesto differente; ma l’amore cambia sempre le carte in tavola ed il presunto carnefice può diventare vittima in qualsiasi momento. La divina scoperta, da parte di Anderson, della neo “musa” Vicky Krieps – attrice lussemburghese attiva soprattutto in Germania; molto somigliante ad una bellezza atipica come quella di Julianne Moore, per un certo periodo interprete feticcio dell’autore di Magnolia – mette in luce la quintessenza della femminilità: partendo da una posizione di inferiorità sociale ed economica ribalta uno stato delle cose cristallizzato con la sagacia di una definitiva lettura psicologica di colui che gli si pone di fronte. Una coppia autentica si forma gradualmente di fronte ai nostri occhi, come di rado è stata raccontata al cinema. Breve incontro di David Lean e In the Mood for Love di Wong Kar-wai, tanto per citare due titoli, possono essere accostati a Il filo nascosto; ma ogni lungometraggio citato si distingue nella meravigliosa, rispettiva, unicità. Poiché il sentimento ha troppe, infinite, sfaccettature per essere concentrato e di conseguenza narrato in una storia sola.
Sullo sfondo di una lotta di classe tra nobiltà e alta borghesia da una parte – ovvero la clientela della maison di Woodcock – ed i ceti meno abbienti dall’altra, Il filo nascosto crea un altro miracolo. Quello di recidere, ad un livello meta-cinematografico, il metaforico cordone ombelicale che divide finzione e realtà. Un processo osmotico accompagnato da una regia priva del benché minimo orpello estetico – e dire che Il filo nascosto è anche, in primissimo piano, un film sulla Bellezza e la sua utopica irraggiungibilità – durante il quale le due componenti si fondono in totale armonia. Per certi versi Il filo nascosto potrebbe essere preso per un documentario, talmente scava a fondo nell’essenza di personaggi inventati che si trasformano in persone più autentiche di quelle in carne e ossa. Poi, riflettendo con profondità inusitata sul gioco di finzione personale a cui si viene in un certo senso costretti durante l’innamoramento, ecco che il corto circuito tra le due dimensioni diviene in assoluto irreversibile.
Insomma, nell’ultimo lungometraggio di Paul Thomas Anderson c’è decisamente troppo per una banale recensione. E si capiscono perfettamente i motivi per i quali Daniel Day-Lewis avrebbe annunciato il suo addio al cinema dopo aver girato questo film. Eppure, di fronte alla perfezione di quest’opera, il solo, possibile, desiderio cinefilo sarebbe quello di rivedere all’opera quanto prima cineasta e attori. Capaci tutti insieme di raccontare l’imponderabilità della seduzione attraverso la lettura di un’ordinazione in un ristorante. Vedere e ascoltare per credere. Frammento tutt’altro che isolato di un capolavoro di annichilente bellezza destinato a scrivere una nuova pagina nella storia della Settima Arte. Ancora e ancora. Anche quando, assuefatti alla spettacolare medietà imperante, non lo speravamo più.
Daniele De Angelis