Mai viaggiare con un Uomo Morto
Dead Man, del 1995, è film che segna il punto di svolta nella filmografia di Jarmusch, vero e proprio spartiacque al punto che non è errato parlare di un pre-Dead Man e di un post-Dead Man a proposito del suo cinema. Si tratta del il suo sesto lungometraggio, preceduto da Taxisti di Notte (Night on Earth, 1991) e seguito dapprima dal terzo corto di Coffee and Cigarettes (1995), dopodiché dal documentario Year of the Horse (1997) incentrato su Neil Young e i Crazy Horse. Il feature film successivo sarà Ghost Dog (1999), altra pellicola chiave e, sotto alcuni punti di vista, accostabile a Dead Man.
Dead Man è un viaggio metafisico, spirituale e taumaturgico, compiuto da William Blake (Johnny Depp), un impiegato di Cleveland che si reca a Machine, cittadina del selvaggio West, in seguito a un’offerta di lavoro. La tematica del viaggio come percorso metaforico, la cui meta si identifica col raggiungimento di un desiderio, è consueta in Jarmusch: dalla Cleveland di Stranger Than Paradise (1984), in cui i due protagonisti si recano per trovare Eva, passando per il pellegrinaggio a Memphis della coppia di rockabilly giapponesi di uno dei tre segmenti di Mystery Train (1989) fino a all’evasione/road trip dei tre carcerati in Daunbailò (1986). Ma è col film immediatamente precedente a Dead Man, Taxisti di Notte, che il concetto di spostamento, di travelling, inizia a cambiare: non più lunghe peregrinazioni alla ricerca di qualcosa o qualcuno, bensì brevi tragitti in cui si intrecciano il Destino, il lutto e la Morte. Proprio thanatos, infatti, a partire dal titolo, è protagonista della parabola di William Blake, già profetizzata dall’uomo in locomotiva (Crispin Glover) e che impregna ogni singolo fotogramma di quella che è, senza ombra di dubbio, una delle punte massime del cinema di Jarmusch. “E’ preferibile non viaggiare con un uomo morto”, recita la citazione da Henri Michaux nell’incipit: Blake pare disseminare morte al proprio passaggio, dalla recente dipartita dei propri genitori fino ai tanti cadaveri che si susseguono nel narrato; egli però, è untore involontario, personaggio in tutto e per tutto naif e nemico della pistola, che userà suo malgrado. Si trova costretto a uccidere per non venire ucciso a sua volta.
La prima, grande differenza che si denota in quest’opera rispetto ai film predecessori, sta nella decisione di Jarmusch di utilizzare un genere ben preciso, il western, come punto di partenza e stravolgendone i canoni: tornerà a farlo soltanto in seguito, con Ghost Dog, che si basa sul gangster movie, nel crime The Limits of Control (2009, inedito da noi tranne che per il passaggio al Milano Film Festival nel 2010) e, più di recente, in Solo gli amanti sopravvivono (2013), nel quale la struttura narrativa e tematica del vampire movie diventa simbolo “altro”, pura metafora.
Il concetto di script, nelle prime opere del cineasta, è sempre stato piuttosto libero, non tradizionale e per nulla incanalato in schemi rigidi: qui, invece, troviamo alcuni elementi tipici della struttura del Viaggio dell’Eroe teorizzato da Vogler, nel richiamo continuo ad archetipi e miti radicati nell’inconscio collettivo. L’eroe/antieroe William Blake, un impiegato dall’aria chapliniana, lascia il mondo ordinario in modo del tutto inconsapevole: non vi è il richiamo all’avventura teorizzato da Vogel, ciò che accade, accade per volere del Destino, del Fato, e Blake è trasportato dagli eventi. Il punto focale è la prova centrale, quella in cui, secondo la struttura classica “l’eroe rischia di morire o muore per poter rinascere di nuovo”, un vero e proprio rituale di passaggio; questo step in realtà copre l’intero film, è ben più di una tappa in quanto costituisce il corpus dello svolgimento narrativo. E’ nella figura di Nessuno (Gary Farmer), il pellerossa senza tribù – dunque altro outsider solitario tipico del cinema di Jarmusch – che più archetipi teorizzati da Vogler (e di ovvia derivazione Junghiana) si uniscono in un solo personaggio: Nessuno è al tempo stesso mentore e guardiano della soglia, con alcune caratteristiche anche del trickster, “l’imbroglione”, nel suo essere goliardico e surreale.
Il messaggero è un evento scatenante, l’episodio da cui tutto ha inizio, una casualità che diventa cardinale in Dead Man: dopo l’arrivo a Machine, William incontra Thel, una fioraia ex-prostituta, con la quale ha un’avventura da una notte; i due vengono sorpresi da Charlie (Gabriel Byrne), ex-fidanzato di lei dalla pistola facile. Egli spara al protagonista per gelosia, ma la giovane gli fa scudo, morendogli tra le braccia: per autodifesa, Blake contrattacca, uccidendolo, dopodichè fugge sul suo cavallo, mentre nel cielo notturno e irreale appare una stella cadente. Charlie è figlio di John Dickinson (Robert Mitchum, qui alla sua ultima apparizione cinematografica), proprietario della fabbrica in cui William Blake avrebbe dovuto prestare la sua opera: Dickinson assolda tre sicari e mette una taglia sulla testa di Blake. Inizia dunque la peregrinazione del personaggio, che ha una pallottola in corpo, avviene l’incontro con Nessuno, che non riesce ad estrarre il proiettile in quanto è troppo in profondità: William è ferito, e l’agonia inizierà lentamente, parallela al viaggio che è anche fuga, fino alla catarsi finale, al traghettamento verso “l’altro mondo”, al completamento della trasformazione che si snoda nell’arco del plot.
Altro tema fondamentale è quello dell’identità e, in primis, della sua ambiguità. Il film è ambientato nel 19mo secolo e la scelta del bianco e nero ha voluto rafforzare – stando alle parole del regista stesso – il senso di lontananza e di estraneità, che si sovrappone allo spaesamento del personaggio. Blake si trova in un territorio che non gli è famigliare, e la splendida fotografia in black and white, firmata da Robby Müller, collaboratore abituale di Jarmusch, estende questo senso di straniamento anche allo spettatore: ciò che vediamo non è il West a cui siamo abituati, e la scelta estetica del regista ha una motivazione ben precisa, ossia prendere le distanze dai western così come li conosciamo, specialmente a livello cromatico. Secondo il cineasta nativo dell’Ohio ma naturalizzato newyorkese (dunque, anch’egli perennemente stranger e forestiero) la maggioranza dei film western si basa sulla medesima palette di colori e la scelta bicromatica dunque è una scelta di allontanamento: dai western tradizionali, ma in primis da qualsiasi tipo di riconoscimento e conoscenza dell’ambiente, sia da parte del protagonista che del pubblico. L’ambiguità del paesaggio si fonde con quella dell’identità stessa del protagonista: William Blake, omonimo del poeta e pittore britannico la cui arte risiedeva nella visionarità e in una vera e propria magia, densa di simbolismi che qui diventano linguaggio primario di comunicazione filmica. Jarmusch ha dichiarato che, in fase di ideazione, non vi è stata da parte sua una chiara intenzione riguardo all’inserimento di William Blake, bensì si è trattato di un processo spontaneo: leggendo le sue opere, il regista ha notato come molte idee alla base del pensiero del geniale artista britannico fossero assai vicine alla cultura pellerossa, in particolar modo nei Proverbs of Hell, parte dell’opera The Marriage of Heaven and Hell, composta tra il 1790 e il 1793. Dead Man è disseminato di riferimenti a Blake, ad esempio nel nome del personaggio di Thel, da The Book of Thel (1789). Ma è per bocca di Nessuno che giunge la maggior parte delle citazioni: “The eagle never lost so much time as when he submitted to learn from the Crow“, “Drag your wagon and plow over the bones of the dead“, sono entrambi passaggi da Proverbs of Hell, il secondo dei quali è anche parte del testo di How’s It Gonna End di Tom Waits, da sempre legato al cinema di Jarmusch. E ancora, di particolare importanza, la frase che Nessuno dice all’intollerante missionario (Alfred Molina) : “The vision of Christ that thou dost see / Is my vision’s greatest enemy“, tratta da The Everlasting Gospel, datato attorno al 1818, in cui l’autore abbandona il simbolismo che gli era proprio per un approccio più diretto, in cui Gesù diventa un tipico personaggio di Blake, in tutto e per tutto prometeico.
Nessuno è convinto che l’uomo che ha di fronte sia quel William Blake, che ha conosciuto e amato studiando nelle scuole dei bianchi, i quali lo esibivano come un fenomeno da fiera. Nemmeno il protagonista sa chi sia il poeta suo omonimo: Nessuno, dunque, è il sapiente, il saggio, il colto, l’unico in tutto il narrato a conoscere le opere del genio britannico. Ciò denota una visione non stereotipata della cultura pellerossa, fatta di ammirazione e rispetto, e intrisa della già citata consapevolezza delle similitudini tra quel libero pensiero e quello di Blake. L’identità, si diceva: il main character è scambiato da Nessuno per ciò che non è, un artista illuminato e non un semplice impiegato contabile. Anche l’identità del pellerossa si fonde spesso con quella di William Blake nelle sue ripetute citazioni, nel rendere proprio il pensiero altrui in quanto incredibilmente simile.
Le idee di non-luogo e di non-identità sono enfatizzate dal memorabile score di Neil Young, rarefatto e quasi sperimentale, epico e minimalista al tempo stesso: Jarmusch dichiarò che, durante la scrittura e la lavorazione del film, la musica di Young lo accompagnava costantemente ed era un suo sogno che il musicista ne realizzasse la colonna sonora. Young accettò dopo aver visto delle sequenze, e lavorò di improvvisazione mentre davanti a lui scorrevano le immagini del film: un’ispirazione viscerale, spontanea, istintiva che si rivela a dir poco perfetta, in quanto è pressoché impossibile pensare alla pellicola scindendola dai suoni che la accompagnano.
Non-identità qui vista come vera e propria trasformazione: nel corso del viaggio iniziatico (che è solo apparentemente e formalmente fuga) al fianco di Nessuno, Blake diventa altro da sé; il pellerossa lo ricopre con una pelliccia e traccia sul suo volto dei segni, dopo averlo visto come già morto, già scheletro, in seguito all’assunzione del peyote, il Grande Spirito. Man mano che l’agonia per la ferita si fa più grave, il viaggio diviene pellegrinaggio che non prevede guarigione bensì una seconda partenza, quella verso l’Aldilà, andando incontro al mondo dei Morti. Il magnifico finale di Dead Man ne è la parte più simbolica e sublime, la chiusura del cerchio, il ritorno al luogo da cui si proviene. Blake viene condotto da Nessuno presso una tribù, e tramite la soggettiva il suo sguardo confuso, stordito dalla sofferenza fisica, diventa il nostro: lo spettatore segue il personaggio nel suo last voyage, per il quale l’amico-mentore ha disposto una cerimonia propria della sua gente, in una canoa colma di rami di albero di cedro e provviste che prende il largo in mare, affinché William Blake torni ciò che era prima di nascere in forma umana, puro spirito. Una sequenza di bellezza pura, in cui si inserisce l’ultimo evento drammatico: poco prima di morire, mentre la piccola imbarcazione prende il largo e Nessuno è sulla riva, William vede arrivare Cole (Lance Henriksen), uno dei tre sicari, spietato e con tendenze cannibalesche. Cole e Nessuno si sparano a vicenda, morendo entrambi: non vi sono né vincitori, né vinti, il Fato ha messo in campo l’ultima trappola e ciò che doveva compiersi, semplicemente, si compie. Vita e morte diventano una cosa sola, la seconda è il naturale proseguimento della prima in quella ciclicità che è propria della Natura e della cultura alla quale Nessuno appartiene.
Il personaggio interpretato da Gary Farmer, attore nelle cui vene scorre sangue Cayuga, tornerà in Ghost Dog, a segnare quel fil rouge che lega le due opere: due film in cui la struttura del “genere” è mero punto di partenza, nei quali le culture “altre”, quella pellerossa e quella giapponese, simboleggiano il sapere, la saggezza, ciò che è visto come giusto in un mondo sostanzialmente sbagliato.
Dead Man ha avuto alti costi di realizzazione, stimati attorno ai 9 milioni di dollari, incassandone però soltanto un milione circa ai box office statunitensi.
Un’opera seminale e necessaria, divisoria all’interno della filmografia di Jarmusch e foriera di un nuovo corso: la potenza simbolica e visiva di Dead Man ha cambiato il cinema del suo stesso autore, portandolo ad evolversi e maturare. E chi assiste al film, si trova di fronte a qualcosa che tocca l’anima, nel suo essere magicamente archetipico e mesmerizzante: film taumaturgico e sciamanico nel senso più puro del termine.
Chiara Pani
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