Verso il film a episodi: “Mystery Train” e “Night on Earth”
Che l’architettura del film a episodi sussistesse, latente, già nelle prime esperienze registiche di Jim Jarmusch, è implicito nell’analisi condotta su Permanent Vacation, Stranger Than Paradise e Down by Law. Mystery Train, in lizza per la Palma d’oro al festival di Cannes del 1989, declina la dialettica tra continuità e discontinuità, viva nel cinema dell’artista fin dall’esordio, in una foggia che radicalizza o sfuma, a seconda, le direttrici del passato, incanalandosi verso lo stadio, eccezionale ma non avulso dal corso creativo del filmmaker, di Night on Earth (in italiano Taxisti di notte), classe 1991. Due opere all’insegna dell’episodico, Mystery Train e Night on Earth: ma che cosa significa ciò in Jarmusch?
L’effige che costui ha forgiato di sé negli anni Ottanta è anche l’epopea ingloriosa, sorniona, derisoria e dolente di un cinema che, posto dinanzi alla totalità, ai suoi garbugli, travasi e sconfinamenti, aveva saputo coglierne l’emergenza e l’epifania nell’occasionale, senza mai dimenticare che il tutto continua a fluire.
Anche Mystery Train, come Stranger Than Paradise, offre un menù in tre portate. Ma non si tratta di tre momenti di un’unica storia. Si tratta di tre storie, che si rincorrono entro il bordo di un setting comune. Un film a episodi? Non proprio. Sarebbe forse più appropriato catalogarlo come un soggetto a incastro, per il numero di rimandi che agganciano una vicenda all’altra e congiungono, loro malgrado, i personaggi, accumulati in un’elastica, ma non troppo, unità spazio-temporale.
“Mystery Train è prima di tutto un viaggio attraverso i miti di Memphis”, scrive, a ragione, Umberto Mosca nella monografia del Castoro dedicata a Jarmusch. Se è vero che è nella città di Elvis Presley che ferma il treno in apertura, è vero soprattutto che il film è un omaggio dichiarato del regista al pàntheon della sua religione musicale, in cui non solo l’aura di The King effonde ogni vicolo, ma possono anche comparire alla stazione Rufus Thomas, domandando un fiammifero a una coppia di turisti, e alla portineria di uno squallido albergo, nelle vesti del segretario, lo stesso Screamin’ Jay Hawkins di cui la Eva di Stranger Than Paradise ascoltava ossessivamente I put a spell on you. Si visitano i Sun Studios, dove incidevano i pionieri del rock’ n’ roll, e si dibatte di Graceland. E in mezzo a tutto ciò, si aggirano e si sfiorano due giapponesi, un’italiana, un inglese, insomma la fauna di stranieri, stravolti e sbatacchiati da arcana sorte a cui Jarmusch non riesce proprio a rinunciare, accompagnata o assediata dal solito corteo di fannulloni, sballati e girovaghi incapaci di prendere il toro per le corna.
A scendere dal treno sono Jun e Mitsuko, due fidanzati nipponici in vacanza, protagonisti della prima parte, Far from Yokohama. Lei è galvanizzata all’idea di calpestare il suolo di Elvis. Lui non sembra travolto dallo stesso entusiasmo. La conversazione tra loro è smozzicata e rivela, in controluce, le avvisaglie di una crisi imminente. Dopo una giornata di cammino attraverso strade, piazze e santuari rock, i due scovano una camera all’Arcade Hotel (e se il segretario anziano è Hawkins, il giovane assistente è Cinqué Lee, fratello di Spike). Tra chiacchiere oziose e rituali da intimità domestica, Mitsuko nota, comparando il ritratto di Presley, immancabilmente appeso alla parete, alle fotografie del suo album, come la cultura pop abbia ottuso la diversità tra gli oggetti sensibili, mescolando tutto nell’abissale calderone dell’immagine e dell’apparenza: Elvis non è così dissimile da certe rappresentazioni del Buddha, che a loro volta ricordano la Statua della Libertà, al cui volto è sovrapponibile il viso di Madonna. Immalinconiti a puntino, Jun e Mitsuko tenteranno il riscatto in un amplesso: mentre le loro anime si distanziano, i corpi fremono compenetrandosi. Il mattino dopo è già ora di partire.
In A ghost, grattacapi burocratici trattengono all’aeroporto una vedova italiana, Luisa (Nicoletta Braschi), insieme alla salma del marito. Anche lei finisce, perciò, a vagare per Memphis, in preda al suo disagio. In una tavola calda, le capita pure di imbattersi in un tizio squinternato (Tom Noonan) che dichiara di aver incontrato il fantasma di Elvis e cerca di venderle il pettine che lo spirito gli avrebbe consegnato. Manco a dirlo, anche Luisa approderà all’Arcade, nella cui hall incrocia una ragazza indigena altrettanto sola e nei guai, Dee Dee (Elisabeth Bracco), che le sarà compagna di sventura la notte, perché, per ovviare alla carenza di stanze e risparmiare, le due decidono di dividere la camera. Dee Dee vuole lasciare Memphis e, soprattutto, un uomo che non le ha dato che fastidi. Si sfoga con Luisa, la quale levita, però, in un’abulica imperscrutabilità. Forse suggestionata dall’atmosfera cittadina, forse dalle fole che ha sentito, nel cuore della notte, quando Dee Dee dorme già un sonno profondo, Luisa assiste all’epifania del fantasma di Elvis.
Lost in space parla invece di uomini. E, in particolare, di Johnny (Joe Strummer, già nei Clash), che tutti, per la sua acconciatura, chiamano Elvis, mandandolo in bestia. Britannico d’origine e perciò forestiero in quel di Memphis, Johnny è un perdente su ogni fronte: manesco e incline alla bottiglia, non lavora, frequenta combriccole deplorevoli ed è stato piantato dalla compagna. Durante la rapina a un drugstore spara provocando la morte del gerente e, insieme all’amico Charlie (Steve Buscemi), al quale è sempre toccato il vano compito di riportarlo a più savi consigli, si rifugia… all’Arcade. Il portiere è infatti il cognato di un altro membro della ghenga. Ottenuta una sistemazione di fortuna, i fuggiaschi trascorrono ore di panico e recriminazioni. Svegliatosi all’improvviso dopo essersi assopito, Charlie si rende conto che Johnny, puntandosi la rivoltella alla tempia, sta per compiere un gesto estremo: per impedirglielo, si guadagnerà una pallottola nella gamba.
Mentre, il mattino dopo, Charlie viene caricato, con tanto di ferita, su di un furgone e Luisa attende, all’aeroporto, il suo volo, Dee Dee siede, in treno, accanto a Jun e Mitsuko.
La sceneggiatura di Mystery Train è una congerie di vettori che si intersecano, di allusioni intratestuali, di rispecchiamenti e di addentellati tra gli scaglioni in cui si articola il plot, da leggersi, necessariamente, come un’unica, composita trama. Non solo per l’appuntamento fisso con Hawkins e Lee al banco della pensione. Non solo per la compresenza in campo di Bracco e dei due giapponesi nel finale.
In tutte e tre le storie, la voce radiofonica del dj Domino, alias Tom Waits (!), rintocca le 2.17 e annuncia Blue Moon, nella versione del Re, naturalmente, che prende a spargere il suo canto vellutato tra le tenebre di Memphis. Sia Jun che Dee Dee che Charlie commentano, puntualmente, che nelle camere dell’hotel manca il televisore: ed è così, in ognuna. Dee Dee e Luisa origliano, attraverso la parete, gli spasmi erotici di due che copulano: sono i fidanzati orientali e il pubblico lo sa. Sempre le due donne, ma, prima ancora, Jun e Mitsuko, odono uno sparo mentre, all’alba, stanno preparando i bagagli: è la pistola di Johnny, e gli spettatori lo apprenderanno nel prosieguo. Non occorre un intuito debordante, poi, per arguire che il mascalzone da cui Dee Dee intende allontanarsi è l’Elvis d’Inghilterra, mentre la femmina folle che ha gettato Johnny nella disperazione è Dee Dee. E c’è dell’altro: Charlie, il più fido amico di Johnny, è anche il fratello di Dee Dee.
Mentre siede al bar, Luisa è impegnata nella lettura di un libro. E quando lo chiude, ci si accorge che si tratta dell’Orlando furioso, in una delle magnifiche edizioni Garzanti del tempo che fu. Ecco, proprio l’esibizione del testo potrebbe essere interpretata come una mise en abîme, piuttosto atipica, del film, il suggerimento surrettizio di una chiave ermeneutica da non smarrire. Che cos’è, infatti, il poema di Ludovico Ariosto, se non un cantico di destini incrociati, un’odissea di personaggi le cui traiettorie si lambiscono, talvolta si tangono, perniciosamente? (E Johnny, per di più, spartisce con Orlando, pazzo d’amore per un’Angelica che gli si sottrae, alcuni fondamentali connotati).
Destini incrociati, appunto. In un contesto che li abbraccia tutti. Jarmusch ripropone se stesso. Allo schema di analogie, corrispondenze e agganci tra Far from Yokohama, A ghost e Lost in space, soggiace una concezione della realtà come distesa ininterrotta di cause ed effetti, avanzamenti e recessioni, che il cinema, anche nel raccontare singole vicende, è chiamato a trasmettere. Una distesa che proseguirà anche oltre l’ultimo fotogramma, come la marcia del treno su cui sono saliti tre dei personaggi.
Se la nomea musicale del Tennessee non esercita lo stesso fascino da cui è ammaliato il regista, Mystery Train può apparire come un divertissement intellettualistico e cerebrale. Eppure, non è privo di attrattive. Se nell’interazione tra Jun e Mitsuko si avverte l’eco flebile di Antonioni, l’irruzione del soprannaturale nella scena con il fantasma di Elvis rappresenta una piacevole sorpresa, garbata, ironica, per nulla kitsch o forzata, in sintonia con lo straniamento di Luisa. E al di là di ciò, di tutte le qualità che possono essere sciorinate, è innegabile l’evoluzione coerente di un pensiero sul cinema che rinnova le proprie forme senza tradirsi.
Night on Earth, al contrario, ha l’aspetto di una deliberata operazione commerciale, seppur di classe. Certo, il primo lungometraggio di Jarmusch fotografato dal prestigioso Frederick Elmes, rischiarato dalla luce di astri come Gena Rowlands e Winona Ryder, è, visivamente, un’esperienza remota rispetto ai cimenti No wave. Levigato nella confezione, attrezzato per la più ampia distribuzione internazionale, Night on Earth è sicuramente un titolo di transizione, il lavoro di un celebrato autore alle soglie dei quaranta che sta raccogliendo ispirazione e mezzi per un’opera più ambiziosa e, nel frattempo, accetta alcuni piccoli compromessi. Eppure, il film del 1991 non solo è molto più sincero e rappresentativo di quanto potrebbe apparire, ma si configura, quasi, come l’attracco obbligato di una rotta iniziata molto prima. Ora, finalmente, Jarmusch realizza un film a episodi. Per dimostrare la frammentarietà del mondo? Al contrario.
Cinque orologi giustapposti ci indicano l’ora di cinque diverse città del globo. È tardi, ovunque. Sera in America, notte fonda in Europa. Contemporaneamente, ma ignari gli uni degli altri, cinque taxi sono in transito, ciascuno nella propria città, dando vita agli episodi che compongono il film. Come in Mystery Train, le alliterazioni e le anafore che apparentano le strofe di quest’elegia metropolitana evocano il suono del continuum che ingloba ogni racconto jarmuschiano. E non serve indugiare ulteriormente nella ripetizione di concetti già copiosamente enucleati. Il solo pretesto narrativo di un taxi preso alla stessa ora in cinque siti sideralmente distanti tra loro è già un segno delle corrispondenze che Jarmusch vuole instaurare tra gli episodi. Non certo per dirci che tutto il mondo è paese. Ma a sottolineare, piuttosto, quanto l’episodicità, al cinema, sia più accidentale che sostanziale. Ecco perché Night on Earth porta a definizione una struttura già insita nei film precedenti.
Riceveranno un’inaspettata lezione di vita, e proprio dalla persona dalla quale meno la si attenderebbe, un conducente di taxi, sia l’altera manager di star dello spettacolo Victoria (Rowlands) che, a Los Angeles e nell’episodio più programmatico e prevedibile, viene trasportata dall’aeroporto a casa dall’eccentrica e un po’ cafona Corky (Ryder), sia i tre crapuloni caricati a Helsinki da un laconico taxista, nella più bella, intensa e sofferta delle parabole urbane che Jarmusch compone. Victoria, convinta che la celebrità mediatica sia il sogno di tutti, dopo aver proposto a Corky di lavorare per gli studios, incassa il rifiuto della ragazza, attratta più dai motori che dai lustrini: impara così che il suo non è univocamente considerato il migliore dei mondi possibili. I tre ubriaconi finlandesi, invece, che bevono sulle loro disgrazie professionali e familiari piangendosi indecorosamente addosso, riceveranno dal taxista, al quale è morta una figlia neonata, un esempio di dignità e stoicismo, ma anche la conferma che esistono tragedie più cupe della loro. In un rovesciamento delle parti, a Parigi, sarà la cliente cieca a impartire un insegnamento all’autista: la privazione della vista può guidare a una conoscenza più radicale e profonda di quella di chi è ancorato alla percezione empirica dei corpi.
A New York e a Roma si consumano, invece, due saggi di turpiloquio e oscenità fescennini, in un caso letali. Nella Grande Mela, un inesperto taxista (Armin Mueller-Stahl) viene travolto dal procelloso alterco tra due cognati (Giancarlo Esposito e Rosie Perez), condito da ogni sorta di bassezza, invettiva, contumelia. Nella città eterna, al volante è, invece, un incontenibile Roberto Benigni che, quanto a sconcezza, sembra citare Cioni Mario di Gaspare fu Giulia o Berlinguer ti voglio bene, e che, con la confessione assai licenziosa e triviale di infatuazioni carnali e accoppiamenti zoofiliaci, uccide il prelato (Paolo Bonacelli) salito sulla vettura.
Si potrebbe rimarcare, per la serie le conferme di Jarmusch, l’occorrenza dell’ormai collaudata figura del forestiero a simboleggiare esclusione e spaesamento; rimarchiamolo! Il personaggio di Mueller-Stahl, Helmut, è un profugo della Germania orientale e, se alla guida è così impacciato, è perché nel Paese d’origine era un clown. Dopo la caduta del Muro di Berlino non è riuscito a integrarsi in una società retta dall’economia di mercato e si è trasferito, benché sia lapalissiano che negli Stati Uniti non gli andrà meglio. E così scruta, con occhio bonario e nostalgico, la bolgia che gli si agita intorno, come i due litiganti Esposito e Perez che, per disinvoltura linguistica, paiono sbucati direttamente dal set di Spike Lee. Il conducente dell’episodio parigino è, invece, un migrante ivoriano che, quando carica la ragazza, è stato appena turlupinato da due passeggeri, paradossalmente africani anch’essi. E, lasciata la giovane, verrà risucchiato in una diatriba di strada con un altro automobilista, a riprova di come Parigi non sia proprio la sua dimensione, ubicata, piuttosto, in un altrove che neanche lui conosce.
I taxi ripartono, la vita continua. Oltre i limiti del film, che, infatti, si chiude aprendosi a imprevedibili accadimenti. E non è un controsenso. Jean Mitry affermava che il cinema è un mondo fattosi rettangolo ma che, tuttavia, rimane un mondo, senza confini perimetrali. Un film che sappia cogliere le eccedenze del mondo ripreso coglie la specificità del medium. E Jarmusch ci è riuscito.
Per quanto labile sia ogni periodizzazione, con Night on Earth una stagione filmografica si congeda e con Dead Man ne inizia, nel 1995, un’altra. I nove milioni di dollari di budget di quest’ultimo comportano, infatti, uno stacco imponente rispetto agli standard produttivi del passato, mentre altri temi sbocciano e reclamano di essere colti. È giusto, quindi, dedicare loro una rassegna a parte.
Dario Gigante
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