Quando il mondo si è fermato
Ognuno di noi ha vissuto l’inaspettato e straniante lockdown in modo totalmente soggettivo. C’è chi è entrato in crisi per non poter uscire di casa e non poter condurre la vita di sempre, ma c’è anche chi ha approfittato di questo periodo per riorganizzare la propria vita tramite una nuova, inusuale routine. E spesso, anche persone che hanno vissuto questo periodo nella medesima abitazione hanno avuto una percezione di tale realtà totalmente differente tra loro. Ne sanno qualcosa Paul (impersonato da Vincent Macaigne) ed Etienne (Micha Lescot), protagonisti del lungometraggio Hors du temps, ultima fatica dell’acclamato cineasta Olivier Assayas, presentato in concorso alla 74° edizione del Festival di Berlino.
Paul ed Etienne, dunque, sono due fratelli che per molto tempo non hanno più avuto l’occasione di trascorrere diversi giorni insieme. Con l’arrivo del lockdown, naturalmente, tutto è cambiato e i due si ritrovano a trascorrere le giornate nella loro casa d’infanzia, situata nel bel mezzo della natura, insieme alle loro rispettive compagne (Nine D’Urso e Nora Hamzawi). Le cose sembrano tutto sommato andare per il meglio, ma i loro differenti approcci alla situazione e – più in generale – alla vita li porteranno inevitabilmente a confrontarsi come mai hanno fatto prima.
Hors du Temps, dunque, può sicuramente essere considerato il film più personale di Olivier Assayas. Nel mettere in scena, infatti, questa commedia tanto tenera quando incredibilmente delicata, il regista ha attinto a piene mani dai suoi stessi ricordi, dalla sua storia famigliare, dalla sua infanzia e dai suoi timori riguardanti il presente. Paul, il suo alter ego sul grande schermo, è letteralmente terrorizzato dal virus, continua a disinfettarsi le mani e pretende che tutti in casa lascino la spesa fuori dalla porta per qualche ora, al fine di annullare la pericolosità dei batteri. Le sue manie ci fanno sorridere, ma, nel momento in cui il protagonista si confida – online – con la sua psicologa, capiamo cosa si nasconda dietro tali inquietudini.
Attraverso Hors du temps, dunque, Assayas analizza la sua storia e si autoanalizza per sé stesso e per il suo pubblico. Stanze, mobili, oggetti, ma anche vecchie foto di famiglia divengono, di quando in quando, i grandi protagonisti, nel momento in cui la voce del regista, intervallandosi con la storia messa in scena, ci racconta di volta in volta la loro storia. E così, questo suo prezioso Hors du temps assume immediatamente le caratteristiche di un vero e proprio flusso di coscienza, all’interno del quale le ambientazioni stesse – siano ora gli interni della casa o i verdi spazi aperti che talvolta sembrano quasi ricordare un quadro di Monet – vengono trattate alla stregua di veri e propri personaggi, custodi di segreti dimenticati e che meglio di tutti conoscono l’animo di chi li abita.
Si sorride spesso, durante la visione di Hors du temps. Si sorride soprattutto quando ci vengono mostrati i battibecchi tra i due fratelli o quando Paul dà sfogo a tutte le sue paranoie. Eppure, tale lungometraggio si rivela immediatamente ben più profondo e complesso di quanto possa inizialmente sembrare. Attraverso una storia apparentemente leggera come una piuma Olivier Assayas ha raccontato un capitolo della nostra (e della sua) storia recente, realizzando, al contempo, anche un profondo e mai banale discorso sul fare arte, sul fare cinema. E di arte, di cinema e, più in generale, di bellezza, si sa, ne abbiamo sempre disperatamente bisogno.
Marina Pavido