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Dahomey

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VOTO: 8

Il ritorno in patria

All’interno di una selezione ricca e variegata come quella di un festival del calibro della Berlinale, capita sovente di imbattersi in vere e proprie chicche di rara bellezza e maestria. E quando questo capita, certe immagini sembrano non volerci lasciare mai. Volendo restare nell’ambito di questa 74° edizione del Festival di Berlino, ad esempio, una vera e propria perla in corsa per l’Orso d’Oro è indubbiamente il documentario Dahomey, diretto dall’attrice e regista francese di origini senegalesi Mati Diop. Dahomey, dunque, è un viaggio tra due diverse nazioni che segna la fine di un’epoca. Il racconto di un evento di straordinaria importanza storica attraverso un punto di vista a dir poco inusuale. Un complesso e mai banale dibattito su cosa possano realmente significare certe dinamiche e certe decisioni.
Nel novembre 2021, dunque, è accaduto qualcosa di molto importante per l’attuale Repubblica del Benin: ben ventisei tesori reali del Regno di Dahomey – saccheggiati dalle truppe coloniali francesi nel 1892 – sono stati finalmente riportati in patria. Qui ogni singolo reperto è stato studiato e analizzato fin nel minimo dettaglio e custodito a dovere. Ma cosa significa realmente il ritorno in patria di tali tesori? Al via, dunque, un lungo dibattito tra alcuni studenti dell’Università di Abomey-Calavi.

Dahomey, dunque, è a tutti gli effetti il documentario che non ci si aspetta. E non soltanto per i numerosi interrogativi che un lavoro del genere riesce a sollevare. No. Con Dahomey, infatti, la regista ha dato vita a un prodotto quasi ibrido, che si situa a metà strada tra il documentario, appunto, e il cinema di finzione, con tanto di storia che trascende la realtà conferendo al tutto un carattere quasi fantastico.
I preziosi tesori del Regno di Dahomey stanno finalmente per essere trasportati dalla Francia al Benin. Tutto è pronto per il viaggio. Poi, improvvisamente, buio. Una voce misteriosa inizia a raccontarci la propria storia e le proprie sensazioni durante questo insolito viaggio. A chi apparterrà mai questa voce? “Tutti mi chiamano semplicemente “26”, ma nessuno mi chiama con il mio vero nome”. Una preziosa statua di legno si racconta davanti alla macchina da presa di Mati Diop. Quando tutto è buio, talvolta sentiamo semplicemente il rumore della cassa di legno in cui viaggia che viene sigillata, per poi essere nuovamente aperta una volta giunta in patria. Qui c’è una folla festante ad attenderla e, con canti, balli e variopinti costumi, dà il via a una solenne cerimonia.
Dahomey non è, dunque, semplicemente il resoconto di un evento recente che tanta importanza ha avuto per la Repubblica del Benin. Dahomey è, in realtà, molto di più. E, attraverso una messa in scena soggettiva e coraggiosa che non ha paura di sperimentare nuovi linguaggi, ma che, agile e naturale si muove con leggiadria attraverso i diversi generi cinematografici, Mati Diop ha dato nuovamente prova del suo talento e della sua grande sensibilità registica. Questo suo prezioso, importante lavoro non è semplicemente una testimonianza di quanto recentemente accaduto, bensì un’opera estremamente complessa e stratificata, visivamente accattivante nella sua compostezza, che ci mostra non uno, ma tanti punti di vista, regalandoci, al contempo, momenti di pura bellezza.

Marina Pavido

 

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