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Holy Spider

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VOTO: 8

Senza fiato

Fare cinema in Iran, ma soprattutto farlo in maniera libera, senza che la mannaia di una censura affilata come una lama si abbatta sul film di turno e in primis sul suo autore, è diventato praticamente impossibile. Come impossibile, quanto assai pericoloso e non privo di conseguenze, è diventato l’esprimere democraticamente il proprio pensiero su questo o quell’altro argomento, specialmente quando questo va contro o critica l’operato e le leggi imposte dal regime. Ne sanno qualcosa illustri cineasti come Mohammad Rasoulof, Jafar Panahi e Mostafa Al-Ahmad, arrestati nel luglio 2022 con l’accusa di propaganda sovversiva per una lettera di condanna all’uso della forza e delle armi da fuoco contro i protestanti di Abadan. Di riflesso è arrivata la confisca del passaporto da parte del governo locale e lo spalancarsi per loro e per altri colleghi delle porte del carcere.
Fare film in Iran o semplicemente dire la propria è quindi impresa ardua, farlo in maniera libera e priva di controllo delle autorità sui contenuti, lo è ancora di più. Ecco che l’unica strada possibile da percorrere per non essere costretti a girare in clandestinità è quella di lasciare il Paese, con quei pochi e poche che hanno scelto e avuto la possibilità di emigrare per potere realizzare opere altrove. Tra questi figurano Marjane Satrapi, Nahid Persson, Asghar Farhadi, Shirin Neshat e Ali Abbasi, quest’ultimo naturalizzato danese e residente a Copenaghen dal 2002, la cui opera terza dal titolo Holy Spider ha provocato l’ira del regime, che a sua volta ha scatenato contro il film una feroce campagna di boicottaggio che non è però riuscita a fermarne il cammino. Un cammino, il suo, il 22 maggio 2022 con l’anteprima in concorso al 75º Festival di Cannes, alla quale sono seguite le partecipazioni a svariate kermesse internazionali tra cui quella di Toronto e le uscite nelle sale del resto del mondo, comprese quelle italiane grazie ad Academy Two dal 16 febbraio 2023.
Reduce dall’esperienza seriale che lo ha portato a dirigere due episodi della prima stagione di The Last of Us, Abbasi torna al cinema dopo avere folgorato pubblico e addetti ai lavori con il pluripremiato Border (vincitore tra gli altri della sezione “Un Certain Regard” a Cannes 2018). Per farlo ha scelto proprio di raccontare una vicenda che ha sconvolto il suo Paese di origine quando ancora vi abitava, prima di volare alla volta della Danimarca, riavvolgendo le lancette agli anni 2000 e 2001. Siamo in quel di Mashhad, città a circa 1000 km da Teheran e sede religiosa sciita di grande importanza in cui si sono svolti i fatti narrati nella pellicola, ossia quelli incentrati sulla figura di Saeed Hanaei, di giorno normale padre di famiglia, operaio edile e veterano di guerra, di notte spietato killer a sangue freddo passato alle cronache per l’omicidio di sedici prostitute, adescate e poi uccise strangolate col loro velo in nome di una jihad contro il peccato. Motivo per cui non vuole essere chiamato assassino, con una parte dell’opinione pubblica iraniana che una volta catturato e processato si schiera al suo fianco, vedendolo come una sorta di eroe che riporta giustizia in ciò che era sfuggito all’ordine morale. Ad investigare sugli omicidi una giornalista arrivata dalla capitale di nome Rahimi, una donna fiera ed emancipata, che si trova suo malgrado a scontrarsi contro pregiudizi sessisti ed una polizia apatica che, alla pari della maggioranza dei cronisti locali, non sembrano particolarmente interessati a risolvere il caso.
Da una storia tanto controversa non poteva che nascere un film altrettanto controverso, che per ovvi motivi Abbasi non ha potuto girare nei luoghi reali ma ha dovuto girare ad Amman, in Giordania. Qui ricostruisce gli eventi, romanzandoli in parte e aggiungendo anche dei personaggi fittizi e funzionali al racconto, frutto dell’immaginazione delle stesso regista e dei suoi compagni di scrittura Kamran Bahrami e Jonas Wagner. Tra questi proprio quello di Rahimi, qui interpretata da una straordinaria Zahra Amir Ebrahimi, alla quale è andata una meritatissima Palma d’Oro per la sua performance. È lei il valore aggiunto di un’opera che nella componente attoriale ha uno dei suoi innegabili punti di forza, dove spicca anche il nome di Mehdi Bajestani nei panni del killer Saeed. Ecco perché consigliamo caldamente di andare alla ricerca di una sala dove potervi godere la pellicola in lingua originale, in modo da apprezzarla nella sua interezza. Ed è sempre lei e il suo personaggio l’ago della bilancia su e intorno al quale ruota e si sviluppa questa tesissima e intricata caccia all’uomo, per la quale il cineasta ha attinto a piene mani dall’immaginario e dagli stilemi del serial-thriller, del crime e del noir occidentali. Una volta mescolati senza soluzione di continuità, tali ingredienti hanno consentito ad Abbasi di dare forma e sostanza a un film ansiogeno, inquietante, disturbante e molto crudo quando la violenza viene mostrata in primo piano senza filtri e in tutta la sua efferatezza, facendosi notare per il tasso di brutalità che viene messo in scena sin dalle primissime sequenze.
La fruizione non può dunque lasciare indifferenti, con Holy Spider che è stato pensato e concepito per assestare un potente e preciso pugno alla bocca dello stomaco dello spettatore, che gli scrolla di dosso il torpore e il comfort di una visione passiva, ma anche per lanciare dei segnali forti e decisi alla nazione che ha fatto da cornice a questa agghiacciante vicenda. La stessa che oggi più che mai è nell’occhio del ciclone per i fatti tristemente noti. Abbasi decide di scendere nel ventre oscuro e malato di una città nella quale vige la povertà, la disperazione e la dipendenza, dipinta come una cloaca infetta con i toni del nero e del rosso sangue. Lo scopo è quello di condannare tutto ciò che c’è da condannare, affrontando di petto temi caldi e sensibili quali il fanatismo religioso, la misoginia e il femminicidio. Un magma davvero incandescente che farebbe tremare i polsi a tanti, ma non al cineasta iraniano che tanto in fase di scrittura quanto di messa in quadro non ha mai fatto nessun passo indietro. Il ché lo ha portato inevitabilmente e coraggiosamente a scontrarsi contro un regime in cui non si riconosce.

Francesco Del Grosso

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