L’uomo che scrisse la sua Storia, nel Cinema
Se ne è andato il regista premio Oscar per Il silenzio degli innocenti (1991). Questo il commento più comune che si leggerà o ascolterà a seguito della scomparsa di Jonathan Demme, a settantatre anni dopo una lunga battaglia contro il cancro. Possiamo affermare, senza tema di smentita, che la seconda parte della notizia non corrisponde del tutto a verità. Perché l’importanza di Demme nell’economia della Settima Arte va immensamente oltre un solo titolo, pur importante come quello che ha visto assurgere a successo planetario le turpi, affascinanti gesta di Hannibal Lecter. Un’opera la quale, come pochissime altre riconosciute anche dall’industria hollywoodiana, è riuscita a scavare negli insondabili abissi della mente umana mantenendo al contempo una dirompente energia narrativa. Fine. E nuovo inizio. Perché il cinema di Jonathan Demme, in perfetta coincidenza con le modalità di esecuzione splendidamente indie assorbite dalla scuola sempre feconda di Roger Corman, ha messo sempre un’indagine umanista al centro del suo obiettivo. Perdipiù, valore aggiunto, declinata secondo generi e stilemi differenti, ad ulteriore testimonianza di un cineasta i cui innumerevoli meriti andrebbero considerati a trecentosessanta gradi, tra lungometraggi di finzione, documentari, televisione e ibridazioni varie tra categorie in apparenza differenti tra loro. Non per lui, evidentemente.
Se andate a chiedere, ad un qualunque cinefilo, qualche titolo che è stato in grado di sollevare il metaforico velo sulle capacità del Cinema di diventare mezzo di comprensione del mondo, state sicuri che un film diretto da Jonathan Demme ci sarà sempre. A livello soggettivo è stata la visione di Qualcosa di travolgente (Something Wild, 1986) a farmi ancora una volta cambiare la percezione degli orizzonti della Settima Arte. A suggerirmi che non possono esistere solamente le apparenze, il bianco o il nero, la gioia o l’amarezza, la commedia o il dramma, l’attrazione sentimentale e la violenza. Tutto è, inesorabilmente, mescolato assieme. Facente parte del dna dell’essere umano. Qualcosa di travolgente è il lungometraggio, messo in scena in chiave meravigliosamente ludica e tragica, di un filosofo che scrive un trattato per immagini sull’essenza umana. Chi è veramente lo yuppie Charles Driggs (Jeff Daniels)? E la sua compagna d’avventure Audrey Hankel (Melanie Griffith) detta anche Lulù? Pareva impossibile, in teoria, realizzare un’opera allo stesso tempo classica, sperimentale e transgenere. Demme ci è riuscito, abbattendo tutti questi confini in una volta sola. Uno shock.
Scorrendo la sua filmografia si scopre che, dopo questo film per certi versi epocale ed unico, Demme ha diretto un’opera a piccolissimo budget come Swimming to Cambodia (1987) – esemplare excursus sugli orrori cambogiani partendo dal cinema e da uno degli interpreti, Spalding Gray, del pluripremiato Urla dal silenzio di Roland Joffé – dando già una chiarissima idea di come utilizzare la macchina da presa: uno strumento di scoperta verso nuove esperienze e conoscenze. Su e giù. Un movimento certo dettato da esigenze professionali ma anche interiori. Si torna in alto, dopo il già menzionato Il silenzio degli innocenti, con Philadelphia (1993), primo film che porta l’A.I.D.S. nel dorato mondo del mainstream rappresentando la lotta dell’avvocato Tom Hanks (primo Oscar per lui) contro l’establishment per i propri diritti. Un’opera di incommensurabile impatto morale seguita alle polemiche sull’identità sessuale del serial killer de Il silenzio degli innocenti. Uno sguardo terso, luminoso, commovente oltre l’altissima siepe del pregiudizio. Quindi il capolavoro incompreso, la summa della cultura afroamericana diretta da un autore bianco ma “nero” al suo interno, come asiatico e di tutti gli altri possibili colori che ne hanno fatto un autentico cittadino del mondo: Beloved (1998). Il premio Nobel per la letteratura Toni Morrison, autrice del romanzo ispiratore, e un cinema “larger than life” nel senso più totale del termine. Il peccato originale utopico di un uomo convinto che il Cinema debba e possa abbattere i muri che altrove si pensa invece a costruire.
Si torna al piccolo con il documentario The Agronomist (2003), eccezionalmente empatico ritratto del giornalista haitiano Jean Dominique, paladino dei diritti umani nel suo paese. Un martire delle cause per cui vale la pena vivere e morire, nonché un uomo che Demme immortala in tutto il suo spessore esistenziale.
Sarebbero tanti, davvero troppi i titoli da rivalutare in questa sede. L’esordio con Femmine in gabbia nel lontano 1974, il thriller atipico Il segno degli Hannah (Last Embrace, 1979), la commedia sui generis Una volta ho incontrato un miliardario (Melvin and Howard, 1980), seminale come pochi altri. E ancora il quintessenziale documentario Stop Making Sense (1984), film-concerto sugli amatissimi Talking Heads di Dave Byrne oppure la gustosa messa alla berlina degli stereotipi mafiosi di Una vedova allegra… ma non troppo (Married to the Mob, 1988). Il meraviglioso Rachel sta per sposarsi (Rachel Getting Married, 2008), opera profondamente indie girata alla Cassavetes su un’America che al tempo stava aprendo le sue braccia alla multirazzialità, osservata dal punto di vista di un’indomabile “pecora nera” (Anne Hathaway) a simbolizzare tutte le possibili diversità del mondo. Ci lascia con il sottovalutato Dove eravamo rimasti (Ricki and The Flash, 2015), l’immortale sogno rock di un’attempata Meryl Streep e di un regista che non ha mai smesso di guardare avanti, verso qualcosa che solo lui e pochi altri hanno avuto la lungimiranza di scrutare.
Con Jonathan Demme se ne va un gentiluomo di cui si è già purtroppo perduto lo stampo, una persona che si intratteneva a parlare volentieri con chiunque volesse rivolgergli una domanda o un semplice saluto. E’ accaduto a Venezia, durante una Mostra del Cinema di qualche anno fa, anche al sottoscritto. Un’aria da uomo comune che lo ha fatto ancor più grande tra i grandissimi del Cinema. E che rende assieme piacevole e triste il compito di scrivere queste poche righe per ricordarlo. Un po’ come può esserlo, in molte circostanze, la vita in ogni suo aspetto.
Daniele De Angelis