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El otro hermano

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VOTO: 7

O la borsa o la madre

Tra le cinematografie presenti all’ottava edizione del Bif&st figurano anche quella argentina e uruguayana. A rappresentarle in co-produzione nella sezione competitiva di Panorama Internazionale è stata chiamata la pellicola di Israel Adrián Caetano dal titolo El otro hermano che, approdando nella line up, ha portato con sé un mix interessante di generi: dal crime al noir, dal drama al thriller, con quel pizzico di western nella sanguinaria resa dei conti finale che non guasta mai. Un mix, questo, frutto di un modus operandi nella scrittura che sta portando sempre di più a un’ibridazione. Quest’ultima complica di fatto il riconoscimento immediato del vero DNA drammaturgico del film di turno, ma anche la consuetudine degli addetti ai lavori e del pubblico di indentificarlo con un genere preciso. In tal senso, la pellicola del cineasta sudamericano, alla pari di Al final del túnel del collega Rodrigo Grande, sfugge volutamente a questa pratica di identificazione che non fa altro che ingabbiare l’opera in un filone piuttosto che in un altro. Ed è questo l’aspetto più interessante del film, ossia il suo essere camaleontico, cambiando pelle in modalità random o mescolando senza soluzione di continuità i colori sulla tavolozza. Vedendo El otro hermano, infatti, non può non tornare alla mente Hell or High Water di David Mackenzie.
Le diverse maschere che indossa di volta in volta o contemporaneamente il film si intuiscono già da una prima lettura della sinossi, con la fruizione che non può fare altro che confermarcene la presenza sulla timeline. Cetarti, un impiegato pubblico appena licenziato, si reca da Buenos Aires a Lapachito, una sperduta cittadina nella provincia del Chaco. Qui, deve occuparsi dei cadaveri di sua madre e suo fratello, brutalmente assassinati e con i quali non aveva alcun legame. L’unica ragione che spinge Cetarti a intraprendere questo viaggio è la possibilità di incassare una piccola assicurazione sulla vita che gli consentirà di trasferirsi in Brasile. A Lapachito conosce Duarte, una specie di boss malavitoso che di fatto governa la città ed è amico dell’assassino di sua madre. Duarte e Cetarti formano così una strana alleanza per gestire e incassare i soldi dell’assicurazione. Il soggiorno di Cetarti a Lapachito non sarà tuttavia privo di difficoltà. In quel luogo senza legge, dove nulla è come sembra, Cetarti resterà intrappolato nei loschi affari di Duarte, che lo condurranno verso un epilogo sorprendente quanto inevitabile.
Ed è proprio l’epilogo in salsa western, ambientato in un cementificio abbandonato, il pezzo forte di un film che parte con il freno tirato, per poi schiacciare a tavoletta il pedale dell’acceleratore quando ormai il tracciato sembra destinato a rimanere tristemente piatto. Quando la rassegnazione e il torpore sembrano avere preso il sopravvento, Caetano prende un defibrillatore e da una decisa scarica alla scrittura e alla sua messa in quadro. Il momento esatto arriva a una trentina di minuti dai titoli di coda, quando Cetarti e la donna ostaggio entrano in banca per effettuare il prelievo. Il resto, ovviamente, lo lasciano alla visione, ma una cosa la possiamo e la vogliamo dire: quella scena cambierà il destino del film e il nostro giudizio su di esso. Nella seconda parte, il film e il suo autore, faranno tutto ciò che non gli è riuscito nella prima, a cominciare dall’accelerazione più convinta del ritmo, decisamente più alto e serrato, per finire con una più efficace modulazione della tensione. Ad aiutare il cineasta uruguagio uno strepitoso Leonardo Sbaraglia, che con la sua performance davanti la macchina da presa nei panni del cattivissimo Duarte, contribuisce in maniera determinante alla risalita oltre la sufficienza.

Francesco Del Grosso

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