E se Dio fosse una donna?
Direttamente dalla Macedonia, fino agli schermi di questa 69° Berlinale, ecco in Concorso il frizzante God Exists, Her Name is Petrunya, per la regia della macedone, naturalizzata belga Teona Strugar Mitevska, la quale, attraverso la piccola, singolare storia della giovane Petrunya (Zorica Nusheva) vuole abbracciare vari temi, varie spine sul fianco all’interno di una nazione come l’odierna Macedonia.
E così, con poche note di una musica hard rock in apertura, prende il via l’insolita vicenda di Petrunya, appunto, una ragazza di trentadue anni laureata in storia (una specializzazione, la sua, in cui è praticamente impossibile trovare lavoro), alla perenne ricerca di un impiego che, nel giorno dell’Epifania, viene svegliata da sua madre al fine di presentarsi a un colloquio. Costretta a vestirsi in modo insolitamente elegante e a mentire sulla sua stessa età, la donna non verrà per nulla presa in considerazione dal datore di lavoro, il quale – secondo le sue stesse parole – si mostrerà disinteressato persino a farle delle avances. Sulla via del ritorno, la donna si imbatterà in una cerimonia religiosa che prevede il lancio di una croce nel fiume, con lo scopo che quest’ultima venga ripresa da chiunque prenda parte alla cerimonia tuffandosi e nuotando. Inaspettatamente, sarà proprio Petrunya a portare la croce in salvo – davanti agli sguardi delle telecamere. Peccato, però, che tale pratica sia destinata soltanto agli uomini.
Ciò che la regista con questo suo sentito lungometraggio ha voluto mettere in scena non è, di fatto, solo un manifesto femminista. Se, infatti, da un lato è principalmente della condizione delle donne nella Macedonia di oggi che ci si lamenta, ciò che viene direttamente attaccato è anche il precariato e, soprattutto, la religione, vista come motivo di scontro tra le genti (o meglio, come una sorta di oppiaceo che fa perdere la lucidità mentale a chiunque ne faccia uso) più che come un fattore unificante. Temi più e più volte trattati, questi? Indubbiamente. Che sia, il lavoro in sé, anche piuttosto ruffiano? In parte, non si può non riconoscergli questa colpa. Eppure, dal canto suo, Teona Strugar Mitevska, con un pulito e (quasi) sempre efficace lavoro di sottrazione ha saputo ben fotografare una realtà come la presente, senza far uso di particolari virtuosismi registici, senza scadere in pericolosi (e, in questo caso, altamente rischiosi) luoghi comuni, ma limitandosi a rappresentare il mondo attraverso gli occhi della giovane protagonista (davvero brava Zorica Nusheva), discostandosi solo di quando in quando dal suo punto di vista, al solo fine di prendere di mira un’altra istituzione che, a quanto pare, altro non fa che fomentare in modo negativo i popoli: i media. Su di loro si potrebbe aprire un lungo discorso a parte, eppure, in tutto il lungometraggio, resta particolarmente significativa la frase pronunciata da un uomo davanti alle telecamere: ”Petrunya ha preso la croce, pur essendo una donna. E se Dio stesso fosse, in realtà, una donna?”.
Al via, dunque, stretti, strettissimi primi piani (al punto da non permettere sempre di riuscire a focalizzare nell’insieme gli stessi volti dei personaggi secondari), dettagli della protagonista (come le sue stesse mani intente a stringere la croce o a tenere una sigaretta) e dei suoi interlocutori e, non per ultimi, ambienti freddi, angusti, dalle architettura cadenti, spoglie, quasi come se appartenessero a un’altra epoca (interessante, a questo punto, il parallelismo con la stessa mentalità della gente del posto).
Se, dunque, fin troppe volte è capitato che registi di tutto il mondo sentissero necessario scagliarsi contro certe “malsane abitudini” della società odierna, è anche vero che questo piccolo lungometraggio della Mitevska vanta indubbiamente una forte personalità, senza risultare, dunque, la copia carbone di quanto già realizzato in passato.
Marina Pavido