La bellezza non sazia
Un’isoletta irlandese dal panorama naturale che suscita meraviglia. Dove non accade (quasi) nulla e la vita scorre placida, mentre poco distante, al di là del mare, si odono bellicosi colpi di mortaio. Siamo nel 1923, a Inisherin.
Pádraic Súilleabháin e Colm Doherty sono due uomini del luogo. Il primo vive con la sorella, accudisce le bestie – tra cui l’amatissima asinella Jenny – deputandosi a vari lavori agricoli; il secondo si dedica alla musica, componendo melodie con il proprio violino. S’intuisce un rapporto di quotidiana frequentazione, tra chiacchiere e bevute nell’unico pub del posto. Finché Colm non decide di troncare l’amicizia, ritenendola una perdita di tempo in previsione dell’inevitabile avvicinamento verso la morte. Dando così il via ad una sorta di assurda faida che sconfinerà nel sangue.
Il cinema di Martin McDonagh, ormai è risaputo, si nutre di contrasti e paradossi. Permeati di un’ironia amarissima sempre ad un passo dalla tragedia. Talvolta anche oltre. Come in questo Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin), già presentato con successo alla 79° Mostra del Cinema di Venezia. Un racconto morale solo in apparenza minimalista, quasi esemplare nel proprio farsi parabola laica sulla perenne insoddisfazione umana. Un’opera di opposizioni dove l’ambientazione paradisiaca – dal punto di vista naturale – si scontra con il peggior nemico virtuale dell’essere umano, quella noia esistenziale capace di corrodere al pari di un cancro occulto. MCDonagh, come suo solito, spinge sul pedale dell’assurdo, facendo muovere l’intero contesto sul sottile crinale dello scherzo che si trasforma in dramma assoluto. Donando linfa – per l’ennesima volta dopo titoli quali In Bruges (2008), 7 psicopatici (2012) e Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) – ad un modello di cinema estremamente spiazzante, unico nel proprio genere. Nel quale si incontrano afflato filosofico e riflessioni sulle miserie umane, da contemplare con un sorriso amaro figlio di un’ironia dal sapore di saggezza. Non a caso, a tradire le nobili origini teatrali di McDonagh, Gli spiriti dell’isola è orchestrato come una tragedia greca, con tanto di personaggi a prevedere sciagure imminenti; oppure a sottolineare l’incapacità di affrontare determinate situazioni da parte dei protagonisti.
Ne Gli spiriti dell’isola balugina, in un modo tanto simbolico quanto assolutamente non didascalico, l’intero spettro di ciò che può definirsi natura umana. L’odio inspiegabile che conduce alle “guerre”, siano esse vicine o lontane, pubbliche oppure private. La speranza di un’esistenza migliore, rappresentata dalla figura di Siobhán, sorella di Pádraic. Alla quale non resta che abbandonare la terra natia, al fine di coltivare un’ipotesi di futuro alternativo. L’accanimento della sorte nei confronti dei più deboli, destinati alla sconfitta pur opponendo una commovente resistenza ad un Fato spietato. Tante vicende che si intrecciano a quella principale, seguite da McDonagh con l’empatia ed il disincanto di chi, amando smisuratamente i suoi simili, finisce per conoscere sin troppo bene i rispettivi difetti. Raggiungendo così una profondità morale pressoché insondabile, che forse non sarebbe stata possibile senza le magistrali performance attoriali di Colin Farrell e Brendan Gleeson, con il primo alle prese con un ruolo in grado di definire un’intera carriera per la gamma di emozioni che riesce ad esprimere. Con mirabili interpreti quali Kerry Condon e Barry Keoghan, tra gli altri, a fare degna corona ai due protagonisti. Per un’opera capace di lasciare un segno profondo nello spettatore proprio per la sua inafferrabilità, compreso un epilogo che spalanca voragini di letture differenti. Vuoti che solamente la sensibilità del singolo spettatore potrà essere in grado di riempire.
Daniele De Angelis