«Mina mi ha insegnato a stare»
Da giovedì 29 aprile 2021 sulla piattaforma 1895 potete trovare Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico, una produzione Lama Film, Bartleby Film e Rai Cinema.
Gelsomina Verde, all’età di ventidue anni, lavorava in una pelletteria e aiutava i bambini del suo quartiere a studiare. Nel novembre del 2004 è stata sequestrata, torturata, uccisa e poi data alle fiamme nella sua macchina. Il suo torto era stato quello di aver frequentato per qualche mese, molto tempo prima, Gennaro Notturno, che nella complicata geografia della camorra di allora a un certo punto aveva deciso di passare dalla parte sbagliata e per questo costretto a nascondersi. Mina, per i suoi assassini, doveva sapere dove.
Abbiamo avuto la possibilità di partecipare attivamente all’incontro stampa di presentazione del film, di cui vi riportiamo le testimonianze di ideatori e artisti. Ci auguriamo che Gelsomina Verde possa esser visto sulla piattaforma, nelle scuole, con proiezioni evento perché è un’opera profondamente onesta sul piano intellettuale e umano, nessuno degli artisti sale in cattedra, ma si assistono anche a momenti di confronto e di messa in discussione. Non c’è giudizio, ma la voglia di restituire la parola e l’anima a una giovane donna ammazzata, alla sua famiglia e a una situazione in cui bisogna imparare a stare e poi ad agire, come ben spiegherà l’attrice Maddalena Stornaiuolo.
GIANLUCA ARCOPINTO: «Per me è un film molto importante perché ha avuto una gestazione lunghissima. L’idea è nata nel 2013 quando sono stato chiamato a organizzare la prima stagione di Gomorra – molto tribolata, ho fatto solo la prima parte di quella stagione – però è stato uno dei momenti più importanti della vita perché sono entrato in contatto con quel territorio, con Scampia, le Vele e mi sono trovato in una fase della mia storia molto particolare in quanto, da una parte stavo lasciando il mio ruolo in Cattleya, dall’altra mi sono ritrovato a rappresentare le associazioni del territorio nel costruire, insieme a Sky e Cattleya, un laboratorio che in qualche modo dovesse produrre 5 cortometraggi che fungessero da controcanto a Gomorra. Costituimmo il collettivo Mina, in onore di Gelsomina Verde, e la prima produzione breve che decidemmo di affrontare fu proprio 114, dove veniva ricostruita la vicenda di Gelsomina Verde. In quella circostanza ho avuto la fortuna di incontrare suo fratello, Francesco Verde. L’inizio del mio rapporto con lui è stato molto tribolato perché mi vedeva come la ‘controparte cattiva’ in quanto, neanche io lo sapevo, in una delle puntate finali di Gomorra si faceva riferimento proprio in maniera indiretta alla vicenda di Gelsomina. Ci siamo ritrovati con Francesco soprattutto grazie a Massimiliano Pacifico, il quale era stato individuato per dirigere il corto, intitolato 114 poiché Gelsomina Verde era stata la 114esima vittima del 2004 di Camorra nel territorio vicino a Scampia. Col tempo ci siamo ritrovati nel farne un lungometraggio che volesse innanzitutto raccontare la vicenda senza prestare minimamente il fianco alla spettacolarizzazione e soprattutto che diventasse un oggetto politico per poter affrontare il tema legato al rapporto fra lo Stato e le famiglie delle vittime perché ci si può ricamare qualsiasi cosa su quelle che sono le guerre di mafia, però, alla fine dei conti, i colpevoli vengono individuati, scontano delle pene, ma c’è solo una categoria di persone che sconta una pena che non ha mai fine e sono i familiari delle vittime. Per questo ritengo che questo film sia importante, lo dovevo a Francesco Verde. È uno dei progetti più importanti della mia carriera, è un film ‘piccolo’, destinato a una vita piccola, ma per me è essenziale il senso, che deve essere oggetto di dibattito e di una distribuzione fatta di eventi in cui dialogare. La pandemia ci ha travolto e siamo arrivati a un un punto in cui necessariamente dovevamo uscire. Abbiamo scelto di uscire sulla piattaforma 1895 e anche quella è una scelta che ritengo politica poiché dietro non c’è un editore, è una piattaforma che è fatta da alcune sale di qualità, indipendenti, sparse sul territorio».
FRANCESCO VERDE: «Il punto essenziale di Gelsomina Verde non è parlare della storia di mia sorella perché, purtroppo è brutto dirlo, noi viviamo delle realtà dove queste storie sono quasi all’ordine del giorno, dove tante persone innocenti vengono ammazzate, a volte, senza nemmeno un motivo. Questo tipo di cinema è importante a livello nazionale perché dà la possibilità alle persone di poter riflettere su qualcosa sia su come un film viene girato sia sul perché venga realizzato. Mi aspetto un punto di chiarimento, tante persone mi hanno contattato nei giorni precedenti chiedendomi quale fosse l’impronta del film perché tutti quanti si aspettano morti ammazzati e la vita di questa ragazza; mentre, grazie a Massimiliano e alla chiave cinematografica, abbiamo dato la possibilità alle persone di avere un chiarimento aa tante domande, che a distanza di anni sono rimaste ancora all’oscuro. Ci terrei che quest’opera desse l’opportunità a tutti di riflettere e questo lo dico come familiare di una vittima innocente di camorra perché la ricezione è la cosa più importante».
MASSIMILIANO PACIFICO: «Abbiamo realizzato un film coraggioso per la sua scelta di narrare questa vicenda e che, al contempo, si muove su dinamiche un po’ diverse da quelle consuete del racconto, in quanto è un ibrido tra documentario e finzione. Esistono diversi livelli di narrazione: c’è il documentario perché ci sono delle immagini di repertorio molto dure che ho voluto fortemente utilizzare – devo ringraziare Francesco che le ha procurate – e le abbiamo adoperate su più piani, ad esempio uno degli usi è stato quello di creare un incontro tra Francesco e gli attori per vedere per parlare della storia prima delle riprese forse per alzare un po’ il livello della responsabilità morale, politica e civica del percorso che gli attori compiono con noi. E poi c’è Francesco stesso, che oltre a essere se stesso, a raccontarsi e a raccontare parte della vicenda, interpreta anche un monologo molto difficile per lui da fare dal punto di vista emotivo e lo stesso monologo viene ripreso da uno degli attori, Pietro Casella.
Troviamo momenti di finzione con la ricostruzione di questa residenza teatrale, dove Davide Iodice li ha magistralmente diretti perché Davide è un regista teatrale e drammaturgo è stato coinvolto anche nella scrittura del lavoro, compresa quella che avveniva durante le riprese perché tutte le parti in cui gli attori recitano sono improvvisate, per cui ogni volta una scena veniva fatta una e una sola volta, ma si lavorava alla preparazione di questa scena e a tirare fuori delle degli stati emotivi che rispondessero a quell’episodio. Gli artisti erano in parte coinvolti in quanto attori erano, a loro volta, pure dei co-sceneggiatori del film. Ci tengo a concludere affermando che è un film particolare forse perché contiene al suo interno delle contraddizioni, non è un documentario con una tesi ben precisa, bensì è un film che vuole esporre le contraddizioni di una vicenda così complessa e forse offrire allo spettatore anche le possibilità di crearsi una propria opinione che può essere anche opposta a quella dello spettatore al suo fianco».
DAVIDE IODICE: «È stata un’avventura molto particolare e profonda alla quale ho cercato di sottrarmi per ritrosia. Non sono un attore come diceva Massimiliano però, come punto di partenza comune, abbiamo in primis la conoscenza di Francesco, il quale è uno degli degli attori che hanno frequentato e frequentano questo laboratorio permanente che si chiama Scuola Elementare del Teatro – uno dei progetti di arte e inclusione sociale che porto avanti e in questo sono appunto sullo stesso campo semantico di Maddalena Stornaiuolo che, oltre ad essere un’attrice straordinaria, è un’operatrice culturale che, come me, da anni lavora sul campo perché veniamo da territori e da storie personali in cui conosciamo molto bene il disagio, tanto più quello di determinate fasce economiche e non solo. Tutti questi sono i motivi per cui mi sono lasciato convincere da Massimiliano a lasciarmi guardare: il patto era di non farmi recitare perché ho troppo rispetto per l’arte attoriale. Abbiamo riprodotto con delle modalità con cui normalmente costruisco i miei processi di lavoro in cui la compagnia è un gruppo sociale innanzitutto chiamato ad esprimere un’idea su un tema che è particolarmente a cuore al il gruppo sociale. Nelle due settimane a Polverigi questa residenza teatrale è stata un vero e proprio artigianato di teatro e cinema civile. È stata una grande esperienza di sperimentazione in cui tutti abbiamo provato a scardinare il linguaggio di una oleografia criminale, con tutti i meriti che da un certo punto di vista che Gomorra ha, al contempo ha anche contribuito a creare. Questo film per me ha un grande merito perché linguisticamente e scenicamente lavora sul piano dell’allegoria.
Abbiamo traslato, non vengono rappresentati ammazzamenti, ma c’è la traduzione in un linguaggio metaforico di questi accadimenti. Quello che ho cercato come regista teatrale, rispettando e accogliendo a mia volta le sollecitazioni che ricevevo, è stato quello di far emergere delle soggettive dei vari attori in campo senza giudizio. Massimiliano faceva riferimento al monologo della colpevolezza: nei territori da cui provengo, per le storie che abbiamo attraversato, c’è questo elemento di giudizio e di colpevolezza che, invece, deve essere sostituito per me con una responsabilità che non è più individuale, ma è sociale cioè dietro ogni morto ammazzato, dietro ogni vittima innocente ma anche colpevole, dietro ogni ammazzamento del piccolo o grande criminale c’è una responsabilità sociale molto forte. Ci sono città dormitorio, famiglie dimenticate, c’è l’abbandono scolastico e tutto questo, per esempio, in un monologo magistralmente interpretato improvvisato da Maddalena viene fuori, secondo me, molto bene».
MADDALENA STORNAIUOLO: «Immagino che Davide si riferisse al monologo relativo alla scuola, dove si prova a raccontare che cos’è la verità quindi ne approfitto proprio per partire da lì perché questo è un film che ho voluto fortemente. Come diceva Gianluca è un’opera necessaria, soprattutto è molto importante penso per tutti noi, io lo sento in maniera particolare perché sono nata e cresciuta in questo territorio, che fortunatamente nel tempo sta cambiando a piccoli passi ma il mutamento si vede. La storia di Gelsomina che ho conosciuto in maniera diretta grazie a Francesco, l’avevo sentirà indirettamente già nel 2004 quando eravamo in piena faida proprio perché, come si accennava, i morti erano all’ordine del giorno: Gelsomina è stata uccisa tra la notte del 21 e 22 novembre; Antonio Landieri, cugino di mio marito, è stato ucciso pochi giorni prima, il 6 novembre. Per questo è una storia che ho vissuto in due fasi della vita: in maniera diretta con una storia personale e indiretta poi da attrice chiamiamola così anche se in realtà in questo film l’attrice-la persona sono molto unite, si mescolano tanto perché era impossibile fare diversamente. Forse non sarà capito da tanti perché era più facile realizzare un lungometraggio di fiction assoluta con i morti, col pietismo e la retorica; qui abbiamo messo veramente un sacco di sangue, sudore e verità. Abbiamo provato in qualche modo a restituire dignità non soltanto a Gelsomina, ma a tutta la famiglia, ad una vicenda che è stata raccontata in una maniera non sempre corretta. Quando siamo arrivati alla preparazione di questo monologo sulla verità, per me è stato naturale dire quello che effettivamente penso io e che ho vissuto su quel set. È stato fondamentale chiacchierare con Francesco per ore e ore prima di mettere in scena il tutto e rappresentare la sorella perché un conto è sentire delle storie dai telegiornali o leggerne; un altro conto è guardare negli occhi le persone che quelle vicende le hanno vissute e le vivono tutti i giorni… c’è un fine pena mai. Quello che ognuno di noi può fare con questo film è cercare, in qualche modo, di restituire in maniera reale e onesta una dignità, una verità, poi ognuno si farà sicuramente l’opinione che vuole, però noi quantomeno abbiamo provato a narrare ciò che è avvenuto senza filtri e questo spero che arrivi».
D: Vorrei partire da una battuta detta da Maddalena Stornaiuolo all’inizio «Mina mi ha insegnato a stare» e la volevo rilanciare a lei e a tutti coloro che vogliono rispondere; mentre a Davide Iodice volevo domandare se c’è un filo conduttore anche con lo spettacolo “La luna”, con gli scarti e con questa sua metodologia di improvvisazione…
M. Stornaiuolo: «È una battuta che abbiamo ripreso in realtà dal cortometraggio 114 ed è una battuta importantissima perché di solito uno si sbraccia, prova a fare 1500 cose, prova a diventare un uragano; invece ritengo che bisogna pure imparare semplicemente ‘a stare’, che è la cosa probabilmente più difficile. Uno sta fermo, immobile, osserva ascolta e poi dopo, una volta che ha metabolizzato il tutto agisce, ma dopo che si è riflettuto; invece viviamo in una società talmente caotica e frettolosa, i social ci risucchiano di tutto, veramente siamo inglobati in questo vortice di velocità che lo stare è diventato complicato. Quindi per me è simbolo di Gelsomina: uno per poter parlare di storie del genere deve stare innanzitutto e poi dopo può provare a fare un passo per capire».
Davide Iodice: «Lo stare è anche il rimanere o il ritornare per esempio in un posto, lo stare può consistere anche nel rimettere il dito nella piaga di alcune ferite in questo diciamo questo è quello che io, ad esempio, cerco di fare col mio teatro da anni, attraverso un procedimento di raschiatura in cui porto l’interprete a un punto di profondità che se diventa cristallino può specchiare l’altro e quindi è in quel punto, proprio andando a fondo di se stesso, in questo Maddalena (aveva già lavorato con lei in un processo pedagogico che aveva tenuto, nda) è esemplare, nel senso che ritornando proprio a se stessa, ai propri motivi diventa emblematica di una condizione nella quale si possono rispecchiare tantissime persone che vivono questo. Il procedimento è lo stesso che uso da sempre, è un accumulo emotivo, oggettuale, un artigianato che si costruisce quotidianamente con gli attori, abbiamo fatto anche residenza insieme alla nostra scenografa e ai nostri tecnici perché si costruiscono prototipi, degli oggetti scenici che servono ad esprimere meglio una data condizione. Si costruisce soprattutto un data empatia di gruppo che costituisce poi il pentagramma su cui ciascuno modula, personalmente, a seconda della propria propria vocazione espressiva».
Maria Lucia Tangorra