Creando gli Stati (veramente) Uniti
Quando il cinema americano decide di volgere lo sguardo all’indietro per osservare quella che è stata la genesi del proprio mastodontico paese, riesce sempre a suscitare quel quid di interesse, perlomeno nello spettatore “esterno” a tali vicende storiche. Molto meno coinvolgimento, a giudicare dai magri incassi ottenuti da Free State of Jones in patria, è scattato nella platea statunitense, in tutta evidenza non troppo disponibile a vedere qualcuno – nello specifico il regista/sceneggiatore Gary Ross – intento a rigirare il dito nella piaga di una nazione sin troppo variegata e pregna di contraddizioni, nella quale ad esempio dopo otto anni di saggia presidenza Obama viene eletto colui che potrebbe considerarsi l’esatto opposto in ogni sfumatura possibile. Ad azione, insomma, corrisponde sempre una reazione contraria. Esattamente ciò che accade in Free State of Jones, dove un soldato confederato stanco di combattere una sanguinosa guerra – quella ovviamente detta di Secessione – che non sente sua, dopo aver disertato si nomina spontaneamente leader di un numeroso gruppo di persone di differenti etnie intenzionate a creare una sorta di libera enclave nella contea di Jones nello stato del Mississippi, dichiarando al contempo per primi la parità dei diritti umani in una zona del Sud. Ciò che ne seguirà, peraltro facilmente intuibile, è scritto sui libri di Storia.
Ed è proprio il contesto storico, accuratissimo, ad attirare in maniera primaria l’interesse di Gary Ross, autore non nuovo a guardare l’ombelico del proprio paese da una prospettiva passata per osservarne i riverberi in quella attuale. Una procedura già abilmente attuata nel bellissimo Pleasantville (1998), suo esordio alla regia dove una coppia di teenager (fratello e sorella) venivano catapultati per magia all’interno di una soap televisiva degli anni sessanta, a vivere in prima persona quello che si celava dietro un’ottica apparentemente idilliaca. Anche in Free State of Jones la sceneggiatura si sdoppia, da un punto di vista temporale; affiancando alle preponderanti vicende del protagonista Newton Knight (un misuratissimo, eccellente Matthew McConaughey, sulle quali spalle poggia l’intero peso del film) un aspetto processuale a sfondo razziale riguardante un suo discendente ottantacinque anni dopo. Senza entrare ulteriormente nel dettaglio di un plot tanto ricco e sfaccettato da prestare il fianco a qualche osservazione critica sul percorso di alcuni personaggi (prima moglie e figlio di Knight che ricompaiono sulla scena un po’ troppo improvvisamente), Free State of Jones resta comunque un’essenziale opera dal grande valore socio-politico, che tenta con successo di far comprendere come ogni utopia – nell’occasione per un certo tempo addirittura realizzata – finisca con lo scontrarsi inevitabilmente con la vera natura umana, esplicata nelle sue forme più ottusamente burocratiche di potere oppure espressa nella sua barbara ferocia. Alla creazione dello “Stato libero” citato dal titolo segue infatti una serie di normative politiche fatte apposta per neutralizzarlo; alla fine della schiavitù decretata da Lincoln nasce il Klu Klux Klan, ben noto gruppo razzista autore, all’epoca, dei più efferati crimini nei confronti degli afroamericani. Azione e reazione, appunto, di una nazione che unita non lo è mai stata nemmeno lontanamente, a maggior ragione oggi.
L’evidente messaggio politico, altro titolo di merito del film di Ross, resta quindi tra le righe di un lungometraggio che punta al realismo (le cruente sequenze di guerra e post-battaglia iniziali) utilizzando al minimo indispensabile la retorica dell’eroe buono in un mondo marcio. Quello di Ross è cinema che mira all’autenticità – un po’ come accaduto, da un punto di vista formale, nel sottovalutato primo episodio della saga di Hunger Games: anche in quel caso basato sulla lotta individuale per la sopravvivenza – stando accuratamente alla larga da sconfinamenti di genere melodrammatico o affini. Una forma di distacco molto sottolineata che forse tiene lontano il racconto dal massimo traguardo dell’epica, ma che riesce comunque a coinvolgere chi guarda nell’ammirazione di un personaggio che non perde mai un grammo della sua umanità e che finisce con il coincidere quasi alla perfezione con un film che aggiunge un prezioso tassello alla cosiddetta “Nascita di una Nazione” traumatica e, come detto, sin troppo contraddittoria nelle sue motivazioni più profonde.
Daniele De Angelis