Scelte sbagliate
Navigando in direzione opposta e contraria ci sono registi che decidono per coerenza e fedeltà a se stessi, sfidando il tempo, le esigenze del mercato, i cambiamenti tecnologici e le mode del momento, di portare avanti, narrativamente, tematicamente e stilisticamente parlando, la propria idea di cinema. Ce ne sono altri invece che a un certo punto del percorso cambiano strada per rinnovarsi, o più semplicemente si allontanano da essa per esplorarne di nuove. Giunto al suo tredicesimo film, dopo il ritorno nel Belpaese dall’esperienza oltreoceano ed essersi misurato anche con la serialità (le due stagioni di A casa tutti bene), Gabriele Muccino ha scelto di abbandonare, non si sa se definitivamente o solo in questa occasione, quei drammi di borghesi disagiati e nevrastenici sui quali ha costruito gran parte della sua filmografia. Che Fino alla fine, presentato alla 19esima Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public prima dell’uscita nelle sale il 31 ottobre, rappresenti per lui e la sua carriera un nuovo inizio, una pausa di riflessione o un tentativo di cambiamento, questo solo il tempo e gli step successivi ce lo potranno dire.
In attesa di scoprirlo con la sua ultima fatica dietro la macchina da presa il regista capitolino ha manifestato apertamente il desiderio – e forse il bisogno – di virare verso un cinema più dichiaratamente e spiccatamente di genere, mantenendo però inalterato il suo stile iper-virtuosistico, urlato e perennemente su di giri. Lo ha fatto con una storia che si addentra per toni, stilemi e modalità in territori thriller, ibridando balnear-sentimentale, crime, action e heist-movie. Attraverso questo mix ha portato sullo schermo l’odissea amorosa, esistenziale e criminale di Sophie, una giovane americana di vent’anni che ha vissuto tutta la vita sotto vuoto e in solitudine. Durante una vacanza a Palermo con la sorella incontra Giulio e il suo gruppo di amici siciliani. Desiderosa di vivere fino in fondo, la ragazza decide di scegliere di camminare sull’orlo del baratro trascinandosi in una vertigine pericolosa, trasformando una semplice avventura in una battaglia per la sopravvivenza, il riscatto e l’adrenalina pura.
Il tutto si consuma nell’arco di ventiquattro fatidiche ore che decideranno il destino dei personaggi e delimiteranno l’arco narrativo di un racconto che è anche una riflessione sul ruolo del destino, sul passaggio all’età adulta e sul peso delle scelte. Tematiche, queste, sempre centrali nei suoi film e che l’autore ha voluto portarsi dietro e trattare pure stavolta con la complicità in fase di scrittura del sodale Paolo Costella. Insieme hanno dato forma a una sorta di Bonnie e Clyde all’italiana in terra sicula, che strizza l’occhio all’Oliver Stone di Natural Born Killers e U Turn – Inversione di marcia, ma con il suo immancabile condimento di coming-to-age, che nel caso di Fino alla fine è un capitolo di un romanzo di deformazione viste le conseguenze a cui vanno incontro i protagonisti e i riferimenti di cui sopra.
La curiosità nei confronti di questa virata dobbiamo dire inaspettata di Muccino era sicuramente il motivo principale d’interesse verso il film in questione e il suo operato. Suo e nostro malgrado però l’esitosi è rivelato un passaggio a vuoto, per non dire una caduta alla quale dovrà essere bravo a rispondere per rialzarsi, riprendere il cammino intrapreso, rilanciare o fare un passo indietro. Lo spettatore deve infatti fare uno sforzo immane per credere a certe dinamiche e ai suoi sviluppi, così come deve mandare giù dei dialoghi, al solito sparati a decibel altissimi anche quando non vi è bisogno alcuno. Problematiche, queste, che per un film che si proclama di genere e per gli attori chiamati in causa diventano a conti fatti un ostacolo insormontabile.
Francesco Del Grosso