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Fino a qui tutto bene

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VOTO: 7,5

Pisa, ultima frontiera

Una ventata di aria fresca, per il cinema italiano, che all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma è stata ulteriormente evidenziata dall’attribuzione di un meritatissimo Premio del Pubblico. Si potrebbe descrivere così, l’impatto di Fino a qui tutto bene. Tale entusiasmo si deve anche al fatto che negli ultimi due o tre anni la commedia nostrana, specialmente quella a sfondo generazionale, ha finito per regalare più dolori che gioie. Qui, invece, la maggiore genuinità e freschezza riscontrata tanto nel plot che nella descrizione dei personaggi principali ha saputo incontrarsi, una volta tanto, con la capacità di alludere al presente delle nuove generazioni senza alcuna ipocrisia, senza sconti, senza le solite banalità, ma anche senza deformazioni caricaturali o un desiderio esclusivo di piangersi addosso. La sceneggiatura sfornata in tandem da Roan Johnson e Ottavia Madeddu, al contrario, riesce a dare il “colore” necessario alla vicenda, partendo dalla peculiarità del microcosmo pisano, per poi parlare in modo schietto al cuore e alle menti di chiunque stia attraversando una fase della vita particolarmente difficile: il passaggio dagli ultimi anni di università a un inserimento nel mondo del lavoro diventato sempre più problematico, nell’Italia in crisi di oggi.

Ci sorprende fino a un certo punto che il film in questione si debba a Roan Johnson: già I primi della lista, suo esordio nel lungometraggio, ne aveva messo in mostra una piacevole eccentricità e quell’attitudine piuttosto personale, di certo non omologata, a esplorare i territori della commedia. Eppure, con Fino a qui tutto bene si scorge una crescita evidente, una diversa maturità di scrittura, dovuta probabilmente alla natura di un soggetto così sentito dagli autori stessi. Tutto ruota intorno agli ultimi giorni da coinquilini di cinque giovani universitari che, oltre a dedicarsi allo studio, in quel di Pisa hanno visto intrecciarsi storie d’amore, perdite dolorose, serate ad alto tasso alcolico, cene imbastite a partire da quel “nulla” trovato in frigorifero, laboratori di teatro, più o meno sconclusionati progetti di vita e aneddoti da raccontare agli amici fino allo sfinimento, per quanto siano imbarazzanti e al contempo divertenti. Tale ricettario di quadretti buffi, vivaci, ma all’occorrenza anche malinconici, è stato compilato da Roan Johnson e Ottavia Madeddu, in fase di sceneggiatura, attingendo alle tante testimonianze raccolte mentre si preparava un documentario sull’ambiente studentesco, con l’Università di Pisa quale committente. L’urgenza di raccontare tali storie in tempi brevi, senza aspettare che si azionasse il meccanismo elefantiaco delle ordinarie produzioni cinematografiche, ha infine spinto Roan Johnson a intraprendere un temerario percorso ultra-indipendente, che però tra tanti incomodi gli ha concesso anche di scegliere i suoi attori non tra i “soliti nomi”, ormai abusati e assuefatti a un certo tipo di cinema, ma pescando in un serbatoio di interpreti emergenti, che lo hanno ricompensato nel migliore dei modi: e cioè accogliendo in tutto e per tutto la natura militante del progetto, col quale hanno saputo poi interagire bene in termini di spigliatezza, sincerità, energia e versatilità, diremmo soprattutto questa, nel passare da momenti più intimi alla quasi rituale allegria di gruppo.

Una lieta scoperta è perciò rappresentata da Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D’Amico, Guglielmo Favilla e Melissa Anna Bartolini, bravissimi a impersonare il gruppetto di amici cui va ad aggiungersi, nella scena della festa, la presenza della decisamente più lanciata Isabella Ragonese. I volti promettenti e ancora poco esposti dei cinque attori poc’anzi citati sono un altro bel biglietto di visita, per il film di Roan Johnson, che ha inoltre il merito di concludere il suo agrodolce percorso attraverso un finale sospeso, per niente ricattatorio sul piano emotivo, il cui valore metaforico si esprime con leggerezza e senza appesantire quanto mostrato fino ad allora. Vite (letteralmente) in alto mare, quelle dei cinque ragazzi lanciati alla scoperta del mondo post-universitario, con la speranza di ritrovare presto la rotta.

Stefano Coccia

 

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