Una storia che si ripete
Il percorso sin qui netto nelle produzioni realizzate sulla breve distanza che ha visto l’ultima prova dal titolo Trust Issues ben figurare a Cannes 2018, non a fatto altro che aumentare le attese nei confronti della prima performance nel lungometraggio di Lucio Castro, cineasta argentino con precedenti nel mondo della moda come stilista. Insomma, si tratta di uno di quei cineasti giustamente da tenere sott’occhio, per il quale l’opera prima rappresentava un vero e proprio banco di prova per capire se quando apprezzato dei suoi cortometraggi fosse meritevole delle attenzioni rivolte oppure il classico ingannevole fumo gettato negli occhi.
Ora che abbiamo potuto finalmente vedere il suo Fin de siglo nel corso del Torino Film Festival, laddove è stato presentato nel concorso della 37esima edizione, abbiamo constatato che c’è ancora molta strada da fare per ottenere quei risultati che gli addetti ai lavori – noi compresi – ci aspettiamo da lui. Per il momento ci dobbiamo accontentare di un film che intravede la sufficienza senza riuscire a raggiungerla. Le cause sono molte e riguardano principalmente la fase di scrittura, ancora acerba e fragile. Le buone premesse di partenza che vogliono il cineasta argentino curioso nel confrontare un personaggio nel suo presente con il medesimo personaggio vent’anni prima, per osservare quel che è rimasto invariato, ciò che è cambiato e quel che desiderava e ha dimenticato. Processo che ha portato alla nascita di un melò che gioca la frammentazione del racconto teletrasportando personaggi e spettatori in una sorta di loop spazio-temporale che vede Barcellona fare da splendida cornice dell’incontro tra un argentino di New York e uno spagnolo di Berlino. Quel che sembra l’incontro di una notte tra due stranieri si trasforma in una relazione epica che attraversa i decenni, nella quale tempo e spazio si rifiutano di rispettare le regole.
Il valzer che ne scaturisce ha nei twist e negli switch presenti nella timeline di un’architettura narrativa a incastro le note positive di un’esecuzione che fa della leggerezza dei toni il mood, della superficialità delle argomentazione sollevate nel corso degli incontri tra i due protagonisti una pericolosa costante e della visione stereotipata delle relazioni omosessuali il difetto più evidenti. Ne consegue che il fatto che Ocho e Javi, rispettivamente interpretati da Juan Barberini e Ramon Pujol, siano gay è del tutto irrilevante e ininfluente ai fini dell’economia del film.
Francesco Del Grosso