Mantidi religiose in forma umana
Nel corso della quarantaduesima edizione del Fantafestival, a un concorso lungometraggi qualitativamente apprezzabile sono state affiancate retrospettive non meno interessanti, forse persino superiori. Tante le chicche ripescate dall’inesauribile cilindro della Storia del Cinema. A volte cult movies riconosciuti come The Rocky Horror Picture Show, in altri casi produzioni decisamente più underground caratterizzate da un tocco weird, dissacrante, tanto estremo nel profilare determinate soluzioni narrative quanto provocatorio sul piano socio-politico e dell’immaginario in senso lato. Questo è ad esempio il caso della retrospettiva ribattezzata Girl’s Revenge.
All’interno di essa un titolo ci ha colpito più di altri: Femmine carnivore di Zbyněk Brynych. Due parole sull’autore, intanto. In sintonia con la libertà espressiva della Nová vlna, con quella ricerca personale sul linguaggio cinematografico e su altre, differenti modalità produttive, tipica degli anni ’60, che aveva fatto breccia anche nell’allora Cecoslovacchia, Brynych era considerato in patria regista eclettico, con una certa predisposizione per ardite contaminazioni tra la concretezza di qualche opprimente realtà e la successiva trasposizione filmica in chiave fortemente allegorica, non convenzionale. Ciò si era manifestato anche nell’affrontare temi classici per le cinematografie dell’Europa Orientale, come avvenne nel 1962 con Trasporto per il paradiso, incentrato sul campo di concentramento di Theresienstadt e sul suo Judenrat “Marmulstaub”. Ma già nella sua filmografia di quegli anni compaiono pellicole dalla collocazione più spiccatamente di genere.
Spinto a lasciare il paese dopo gli eventi della Primavera di Praga, il regista ceco trovò rifugio in Germania Ovest, dove la sua vena immaginifica così fuori dagli schemi seppe trasferirsi in storie ancora più anarcoidi, libertarie, selvagge, inerenti magari all’horror ma con un taglio decisamente spiazzante per lo spettatore. Significativa una sua dichiarazione relativa proprio a quel periodo: “Io mi infilo in un formicaio ed immediatamente i suoi abitanti, spinti dalla paura e dall’orrore, salgono in superficie; e nel momento in cui saltano fuori alla luce del sole, ecco, lì comincia il mio film.”
Volendo restare aderenti al linguaggio da entomologo, il passo dal formicaio agli inquietanti “rapporti di coppia” (laddove la femmina comincia a divorare il maschio già durante l’accoppiamento) osservati nelle mantidi religiose può essere davvero breve, a quanto pare. Metafora perfetta di quella “guerra dei sessi” che faceva sentire sempre di più il suo peso, nei costumi in rapida evoluzione delle società occidentali. Ed ecco così venire alla luce, nel 1972, Femmine carnivore, sapida co-produzione tra Germania Ovest, Francia, Italia e Cecoslovacchia, in cui il desiderio di emancipazione femminile assume contorni particolarmente sanguinolenti.
Curioso, poi, che il presupposto iniziale faccia pensare a un lungometraggio più recente, che chissà non abbia tratto ispirazione proprio da lì, il sottostimato La cura dal benessere (2016) di Gore Verbinski. Anche nel predecessore Femmine carnivore abbiamo una protagonista che arriva in un rinomato centro di cure termali, scoprendone poco alla volta segreti terribili. La fittizia ambientazione rimane in compenso un po’ a metà strada tra l’opulenza per ricchi borghesi dei centri termali tedeschi, stile Baden-Baden, e l’iconografia liberty, decadente che caratterizzava ad esempio L’anno scorso a Marienbad, al cui fascino il regista non doveva essere certo restato immune, essendo peraltro originario di quella parte della Boemia immortalata da Resnais.
In siffatta cornice Zbyněk Brynych ha ambientato una pellicola euforica, disturbante, dalle coloriture pop ma carica al contempo di una violenza surreale e grottesca, laddove la comunità femminile della solo apparentemente sonnacchiosa cittadina termale ha individuato due sole strade per relazionarsi col maschio: sottometterlo, nel caso dei più inetti e manipolabili, trucidarlo al termine di orgiastiche messe in scena in tutti gli altri casi. Alla stregua di novelle Baccanti o Amazzoni. Senza prendere moralmente posizione sugli eventi rappresentati, utilizzando di continuo la figura della mantide religiosa quale riferimento allegorico, il cineasta boemo ha dato vita a una sarabanda eccessiva, provocatoria, che l’autore osserva ghignante assieme allo spettatore quasi fosse sornione controcanto delle follie contemporanee. Un film, quindi, che considerando l’odierno perbenismo venato di politicamente corretto non sarebbe al momento più realizzabile, ma che ci mette in guardia, oggi forse più che ieri, sulla strana piega che stanno prendendo i rapporti tra uomo e donna.
Stefano Coccia