Lussuosi soggiorni in una Svizzera Spa.. ventosa
L’albergo-Spa sulle Alpi svizzere dell’ultimo film di Sorrentino, Youth – La giovinezza, ha fatto in un certo senso da apripista. Con quei corpi un po’ sfatti (e quei pensieri malinconici) a mollo in acque tonificanti sembrava comunicarci anche che una carriera all’apice e un portafoglio gonfio possono non essere sufficienti, se ci si vuole sottrarre (senza nemmeno l’ausilio di un Cynar) al logorio della vita moderna, se si vuole insomma contrastare un incombente declino psico-fisico. Ora è arrivato Gore Verbinski a ribadire il concetto, trasferendo però il potenziale così evocativo di determinate location sul terreno a lui congeniale del cinema di genere. Anche ne La cura dal benessere vi è quindi una lussuosa Spa svizzera a fare da sfondo alla vicenda. Tutto ciò nell’ambientazione del racconto, almeno, perché indagando un po’ abbiamo scoperto che in realtà le riprese sono avvenute in Germania, nel Castello di Hohenzollern e presso il complesso abbandonato di Beelitz-Heilstätten, ex ospedale per militari della Prima Guerra Mondiale.
Per la nostra breve indagine sui luoghi reali del film è stata sufficiente qualche paginetta di Wikipedia. Una detection ben più difficoltosa è invece quella affrontata ne La cura dal benessere da Lockhart, giovanotto con un profilo etico decisamente disinvolto, discutibile, spedito in Svizzera dal potente gruppo finanziario attivo a Wall Street per il quale lavora, allo scopo di recuperare l’amministratore delegato di tale azienda; costui, apparentemente vittima di una crisi personale così profonda da farlo rinunciare a una posizione di vertice rendendo poi nota la propria decisione attraverso deliranti messaggi, ha deciso di prolungare il proprio soggiorno in una pittoresca e organizzatissima Spa del posto. Ma sarà stato il magnate della finanza a stabilire ciò o qualcun altro lo avrà plagiato? L’ambizioso e supponente Lockhart è comunque convinto che non dovrà sbattersi più di tanto, per farlo tornare sui suoi passi. Al contrario sarà proprio lui a doversi ricredere su tante cose. Dietro la morbosa atmosfera di quell’accogliente centro benessere perso nelle Alpi, dall’aria un po’ demodé, o per meglio dire fuori dal tempo, si nascondono infatti intrighi e misteri d’ogni sorta. Il sempre più spaesato Lockhart dovrà così confrontarsi con strani incidenti, eventi allucinatori, personale ambiguo e reticente, cure dietro le quali si nascondono terribili segreti e una specie di “mad doctor”, il cui affabile sorriso nasconde in realtà un ignominioso e insospettabile passato.
A parte forse la scelta del protagonista, un Dane William DeHaan qui non sufficientemente espressivo e carismatico (mentre lo avevamo visto più a suo agio in altre occasioni, dal fantascientifico Chronicle a Come un tuono di Derek Cianfrance, dove interpretava il figlio di Ryan Gosling), ci ha convinto il fatto che Gore Verbinski abbia rinunciato a inserire nomi di primissimo per concentrarsi invece sulle atmosfere, sulle sottili parafrasi di genere e i maniacali dettagli di un thriller barocco e allucinatorio che cita tanto altro cinema, mantenendo comunque una sua fisionomia, una sua peculiarità.
La stessa idea di fondo, che propone odierni personaggi legati al mondo della finanza e dell’imprenditoria come risucchiati dalle strane regole di una villa super-accessoriata ed ancor misteriosa, destinata per certi versi a svolgere il ruolo del vecchio maniero di Dracula nel racconto di Bram Stoker, ci ha riportato alla mente un misconosciuto gioiellino italiano di qualche decennio fa: …hanno cambiato faccia (1971) del recentemente scomparso Corrado Farina. Anche lì consumismo sfrenato e capitalismo quali catalizzatori di un vampirismo moderno, dalle pose magari più aggraziate ma altrettanto feroce. E il Nosferatu di turno aveva la gelida compostezza di Adolfo Celi.
A dir la verità il villain de La cura dal benessere, ovvero quel dottor Heinreich Volmer impersonato con un certo stile dall’attore britannico Jason Isaacs, possiede una valenza iconica che rimanda non solo alle pellicole di vampiri ma anche – e forse di più – all’altro fondamentale archetipo rappresentato dal barone Frankenstein, senza contare certi sapidi riverberi del Fantasma dell’Opera e degli horror “sociali” di Brian Yuzna. Perciò è l’intero film che un Gore Verbinski più ispirato del solito sa orchestrare con un taglio registico decisamente curato, raffinato, per quanto ai confini del manierismo, a seguire un po’ questa china; ossia un approccio all’interno del quale un citazionismo estremo, finanche eccessivo, va a fondersi con quella corrosiva rilettura delle tensioni più orripilanti presenti nella contemporaneità della società occidentale, rilettura che qui vi appare declinata in maniera magari non originalissima, ma pur sempre capace di infondere nello spettatore un persistente disagio.
Stefano Coccia