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Faruk

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VOTO: 7,5

Dalla parte del padre

Tra le diverse sezioni che vanno a comporre la line-up del Trieste Film Festival ce n’è una che regala sempre qualche piacevole sorpresa, proprio per la natura delle opere che ospita, capaci di offrire punti di vista sul cinema e sul mondo diversi e mai banali. Si tratta di “Fuori dagli Sche(r)mi”, vetrina dedicata a nuove prospettive e a nuove forme cinematografiche, a titoli più “liberi” nelle durate e nelle strutture narrative, a ibridazioni di generi e linguaggi. Tra le pellicole selezionate nella 36esima edizione della kermesse giuliana che rispecchiano tali criteri figura Faruk di Aslı Özge, già vincitore del Premio FIPRESCI alla 74esima Berlinale.
La regista turco-tedesca torna così alla docufiction e alla sua città natale, Istanbul, dopo aver diretto Black Box, che il pubblico e gli addetti ai lavori italiani ricorderanno per il passaggio nel concorso della 18esima Festa del Cinema di Roma, laddove tra l’altro si aggiudicò un riconoscimento per la miglior sceneggiatura. Lo ha fatto con un’opera girata nell’arco di sette anni che getta uno sguardo sulla vita di un uomo anziano nella vivace metropoli nella quale abita, riportando la mente a quello che è stato il suo film d’esordio, ossia Men on the Bridge. Ma stavolta ad essere ritratta non è una galleria di personaggi appartenenti a generazioni differenti, bensì una persona particolarmente vicina a lei. Quel qualcuno è il padre novantenne Faruk Özge, che diventa il protagonista del film che sua figlia ha deciso di realizzare sull’imminente demolizione del condominio a Istanbul nel quale vive da decenni. Ecco allora che la macchina da presa della cineasta pedina l’anziano mentre cerca di ritardare l’abbattimento dell’edificio, partecipando regolarmente alle riunioni di gestione dei lavori che porteranno alla riqualificazione dell’area e alla costruzione di moderni e lussuosi appartamenti.
Il risultato è una storia coinvolgente, giocosa e personale, animata e spinta da una forte componente politica e sociale. Faruk è infatti un film dalla doppia anima sia sul piano contenutistico sia tecnico, che in entrambi i casi coesistono in maniera armoniosa ed equilibrata. Da una parte troviamo una narrazione e una drammaturgia che palleggiano efficacemente tra la dimensione privata e intima della sfera familiare e quella pubblica della lotta di un uomo per rivendicare ciò in cui crede e difendere qualcosa a lui cara e non solo. Ecco materializzarsi davanti agli occhi dello spettatore di turno sia un dialogo aperto tra una figlia e un padre che ne esplora i complessi e delicati meccanismi, sia un tentativo di affrontare il tema e le implicazioni della gentrificazione, con il conseguente processo di imborghesimento di aree urbane come quella in cui ha trascorso parte della sua esistenza il protagonista. Queste due sfere entrano in stretta correlazione, intersecandosi e contaminandosi a vicenda grazie all’approccio e ai linguaggi scelti dall’autrice per portare sullo schermo i suddetti contenuti. Il tutto viene racchiuso in un progetto audiovisivo che cambia pelle e si trasforma strada facendo. Ed è questa mutazione genetica a rendere l’operazione interessante e la fruizione stimolante. L’inizio in modalità meta-cinematografica impostato come se fosse il making of di un film, con riprese che rompendo continuamente la quarta parete sembrano tratte da un backstage, lascia poi spazio a un modus operandi che si base sul confondere intenzionalmente i confini tra realtà e finzione. Questi il più delle volte si azzerano, rendendo la linea di demarcazione praticamente invisibile. È qui che la commistione tra documentario e fiction apporta una particolare forza al procedimento, con Faruk che assume la sua forma definita e definitiva.

Francesco Del Grosso

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