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Ever After

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Bild 52 Vivi trifft auf die Zombibraut. Die Gärtnerin gebietet Einhalt.
VOTO: 6

Ordine di sfratto

Dall’origine del sotto-genere, ossia da quando il compianto Romero ha consegnato al grande schermo il primo genito La notte dei morti viventi, lo zombie movie ha subito tante di quelle mutazioni genetiche che è impossibile classificarle. Il proliferare nei decenni successivi ha dato vita a un filone vero e proprio che conta ad oggi migliaia di pellicole prodotte alle diverse latitudini, alcune delle quali allineate alla matrice romeriana, altre portatrici virali di variazioni sul tema e un’altra grande fetta composta da fotocopie sbiadite e da tentativi più o meno riusciti di clonazione. Di conseguenza, ne abbiamo viste di tutte i colori e gustati in tutte le salsa. Ciò ha determinato un’indigestione nel consumatore e un abbassamento delle aspettative nei confronti dell’opera di turno.
Naturalmente ci sono le eccezioni alla regola, ossia quei fulmini a ciel sereno che regalano inaspettate sorprese che riportano a galla l’entusiasmo sopito, come nel caso dei recenti Les affamés del canadese Robin Aubert e The Night Eats the World del francese Dominique Rocher. Purtroppo la pellicola della quale ci apprestiamo a parlare ha dimostrato di non avere le medesime qualità delle suddette opere, quelle che avrebbero altrimenti permesso al final cut di raggiungere risultati più elevati. Eppure Ever After aveva tutte le carte in regola per fare molto, ma molto meglio, di quello che è approdato sul grande schermo e che abbiamo potuto vedere nel corso della prima edizione di Oltre lo specchio, dove l’opera seconda di Carolina Hellsgård è stata presentata in anteprima italiana dopo il battesimo al Toronto Film Festival 2018.
La discontinuità nella scrittura, così come i momenti di stallo drammaturgico e di messa in quadro, provocano una brusca frenata alle ambizioni dell’autrice e alle aspettative dello spettatore. Quest’ultimo si trova a fare i conti con un potenziale solo in minima parte espresso da un film che non rende giustizia al talento indiscutibile di chi lo ha realizzato. La cineasta tedesca di origine svedese, già autrice dell’interessante esordio dal titolo Wanja (2015), di talento ne ha da vendere e la sua padronanza dell’hardware, insieme al gusto per la composizione, lo dimostrano. In effetti, la regia e la varietà di soluzioni visive offerta rappresentano uno dei punti a favore dell’operazione, che ricordiamo prendere spunto dall’omonima graphic novel di Olivia Vieweg. La Hellsgård ha dunque abbandonato i lidi del cinema di stampo realistico per avventurarsi nel campo minato del genere e per farlo ha scelto di trasporre le tavolozze della connazionale. Ne viene fuori un doppio e interessante sguardo al femminile sullo zombie movie, che ai temi e agli stilemi tradizionali del filone in questione accompagna spunti di riflessione non originali, ma dal peso specifico non indifferente. Riflessioni sulla natura che presenta il conto e dalla quale i carnefici, ossia gli esseri umani, devono ripartire per fronteggiare l’ordine di sfratto dalla Terra, che diventano la materia prima del racconto e del suo DNA, dai quali la matrice e la sua trasposizione cinematografica non si sono mai fatte schiacciare.
Ever After ci catapulta nel corso di un’epidemia di zombie, con gli umani sopravvissuti arroccati in due sole cittadine tedesche, Weimar e Jena: la prima ha una politica di sterminio incondizionata dei non-morti, la seconda sta attivamente cercando una cura. Due ragazze, Eva e Vivi, nonostante le differenze che le dividono, si ritrovano in un viaggio pericoloso tra le due città, a piedi tra le foreste della Turingia. Ne viene fuori un romanzo di formazione in salsa road movie dalle ambientazioni rurali, quest’ultime deturpate dagli orrori, dagli incubi ad occhi aperti e dalla morte che si palesa sotto forma di orde fameliche di zombi. La componente splatter è attenuata e non spinta sino ai bagni di sangue che siamo soliti vedere nel genere. Da ciò traspare l’esigenza della pellicola di usare il filone come viatico di contenuti non come mezzo di mattanza videoludica fine a se stessa. Da qui traspare il punto di vista femminile e la volontà di mettere la forma al servizio della sostanza. Ciononostante non mancano lampi d’azione carichi di tensione a squarciare l’anima bucolico e ambientalista che pervade e invade lo schermo dal primo all’ultimo fotogramma utile (vedi l’attacco nella laguna e quello alla torretta da parte della sposa zombi o l’inseguimento sulla diga).

Francesco Del Grosso

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