Modernismo sudcoreano e feroce denuncia sociale
Nell’ambito della retrospettiva del Far East di quest’anno, dedicata al cinema coreano sotto la dittatura e intitolata significativamente “I Choose Evil”, A Day Off era il titolo più atteso. Un film maledetto, è proprio il caso di dirlo, quello di Lee Man-hee, che dopo essere stato realizzato, nel 1968, subì la censura di regime e rimase sepolto nei magazzini per ben 37 anni. Una visione conturbante ed estetizzante delle misere condizioni del Paese e dei suoi abitanti all’epoca, della povertà delle classi inferiori, nonché della loro impossibilità di uscire da questa situazione. Un film che puntava il dito e condannava il regime senza appello e che perciò non poteva venire tollerato dalle alte sfere.
La storia, volutamente scarna, è quella di Heo-wook e Ji-youn, due giovani entrambi in pessime condizioni economiche che vivono a Seoul. I due si amano, ma le occasioni per incontrarsi sono rarissime, a tal punto che essi riescono a stare insieme solamente nel giorno festivo (il day off del titolo, appunto). Le cose si complicheranno ulteriormente quando Ji-youn scoprirà di aspettare un bambino. Non essendo in alcun grado in modo di sostenere economicamente un’altra vita, la coppia deciderà a malincuore che la via migliore da seguire è quella dell’aborto.
Il dramma che percorre l’intera vicenda si riverbera anche sulla città che ne fa da sfondo, sugli ambienti che i due protagonisti attraversano, quasi sempre periferici e caratterizzati dalla desolazione, dalla miseria, da case fatiscenti e da un vento che spira in continuazione, impetuoso ed ostile. Le figure in cui essi s’imbattono sono anch’esse misere, infelici, prive di ogni possibilità di fuga da una condizione economica e sociale meschina e frustrante.
Lee Man-hee lavora su ciascuna inquadratura del suo film con un’attenzione e una cura che richiama, si rifà e coraggiosamente innova la miglior tradizione del cinema moderno europeo. Il cineasta sudcoreano guarda e s’ispira ad autori come Antonioni e Resnais. Ne emergono la brillantezza, l’originalità e la precisione nella composizione della singola immagine. Il posizionamento delle figure umane all’interno dell’inquadratura è attentamente studiato, così come quello degli elementi che le circondano, spesse volte naturali, in particolar modo piante fronzute e dalla ramificazione intricata, a comunicare anch’esse il disorientamento e la confusione che regna nell’animo della giovane coppia. I movimenti e gli spostamenti dei personaggi sono calibrati e mirano a trasmettere l’inquietudine e la profonda tragedia di cui è permeato A Day Off.
Se la componente melodrammatica della storia sfugge qualche volta dalla presa di Lee Man-hee (sotto questo punto di vista sembra molto più riuscito il precedente Black Hair, anch’esso proiettato nel corso della rassegna udinese), in maniera anche comprensibile data l’esilità della trama in sé e la volontà di aumentarne e dilatarne il più possibile la tragicità, la vicenda della pellicola ci appassiona e risulta oltremodo significativa, non solo per l’importanza di A Day Off come fulgido esempio di cinema modernista sudcoreano, ma soprattutto come strumento e vera e propria arma imbracciata contro il regime. Regime che, furioso per ciò che appare nel lungometraggio, propose un compromesso ai produttori e al regista, in modo tale da far uscire il film: mutare il finale e fare sì che Heo-wook, in ultimo, si arruoli nell’esercito. Il compromesso non fu accettato ed allora sta a noi riscoprire la preziosità e unicità di A Day Off.
Marco Michielis