Un brusco risveglio
Non meno di otto anni fa Parigi veniva letteralmente invasa da un esercito di non-morti, gli stessi che costrinsero poi i membri di una gang e un gruppo di poliziotti inizialmente rivali a coalizzarsi per non essere divorati. Era il 2010 quando i protagonisti del film di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, La Horde, si barricavano dentro un palazzo nella banlieue parigina, sul tetto del quale poterono assistere inermi alla distruzione de “la Ville Lumiere”. Nel frattempo, cinematograficamente parlando, di acqua ne è passata sotto i ponti, con la città che finisce nuovamente sotto attacco di un’ondata di morti-viventi che si riversano tra le strade, i vicoli e le abitazioni di quello che si è trasformato in un autentico inferno terreno. In The Night Eats the World di Dominique Rocher, presentato in concorso al Trieste Science + Fiction Festival 2018 dopo l’anteprima al 47° Festival di Rotterdam, la storia si ripete, ma stavolta il massacro prende il là da un edificio haussmaniano nel cuore di Parigi.
Ma riavvolgiamo le lancette dell’orologio. Siamo nel pieno di una festa affollata in un appartamento del centro, laddove il protagonista Sam incontra la sua ex-fidanzata Fanny. L’uomo non ha nessuna intenzione di trattenersi a lungo, ma prima di andarsene intende recuperare la sua collezione di musica, che è ancora nell’ufficio; decide quindi di aspettare che le acque si calmino. Quando si sveglia la mattina dopo e apre la porta, scopre che tutti gli ospiti si sono trasformati in affamati zombi… loro come il resto della popolazione parigina, con gli ultimi sopravvissuti che stanno morendo giù in strada. Sam è relativamente al sicuro: ha rinchiuso i sanguinari ospiti nei loro appartamenti e trasformato il resto del signorile edificio nella sua isola privata, con scorte di cibo e un kit completo di sopravvivenza. Ma per quanto tempo potrà sopportare il silenzio e la solitudine?
A questa domanda saranno i novanta e passa minuti dell’opera prima di Rocher, adattamento del racconto omonimo di Pit Agarmen, a darci delle risposte. Ciò che possiamo e vogliamo dire è che per forza di cosa ci troviamo nuovamente e aggiungiamo inevitabilmente al cospetto di uno zombie-movie che segue per gran parte di dettami e le regole non scritte di un filone sul quale pesa la scomoda eredità del suo padre biologico, ossia il compianto George Romero. Di conseguenza, non era facile e non lo sarà per il resto dei decenni avvenire trovare escamotage, chiavi e prospettive originali, o quantomeno diverse, per portare sul grande schermo qualcosa che avesse nella scrittura e nella sua trasposizione uno e più motivi d’interesse.
Per quanto riguarda The Night Eats the World, Rocher non si allontana nemmeno di un passo dalle linee guida tracciate dal celebre precursore, le stesse seguite pedissequamente da moltissimi altri colleghi a tutte le latitudini che si sono cimentati negli anni con il genere in questione. In tal senso ne abbiamo viste davvero di tutti i colori, ma a conti fatti la sostanza, salvo rarissime eccezioni (vedi il bucolico Les affamés di Robin Aubert), è sempre stata la stessa con il plot e i relativi personaggi che hanno preso forma e sostanza all’interno di una cornice ormai predefinita e codificata come quella del mix tra survivor movie e home invasion. Tuttavia l’esordiente regista transalpino riesce ad aprire un piccolo spiraglio non in materia di originalità piuttosto di approccio alla materia, che mette a disposizione del film un’esca per catturare l’attenzione del pubblico di turno. L’esca utilizzata è quella di una narrazione perlopiù minimalista che ruota e si concentra sulla condizione di isolamento e di sopravvivenza psicologica di un personaggio che diventa una sorta di Robinson Crusoé. Non siamo su un’isola deserta bensì in un appartamento nel cuore di Parigi e come unico compagno quotidiano non c’è un pallone con una faccia impressa, ma uno zombie bloccato nell’ascensore. Dal canto suo, il protagonista affronta la routine suonando la batteria e sparando con una pistola ad aria compressa alle fameliche creature che pullulano nelle strade circostanti.
L’intuizione di Rocher sta dunque nell’avere puntato unicamente sull’impatto psicologico e sulle conseguenze che l’infinita attesa provoca nel personaggio principale. La sopravvivenza non passa per la resistenza armata, ma per quella interiore. Nessun colpo ad effetto, tantomeno nessun ricorso a fughe rocambolesche o a fuochi pirotecnici, perché a quello ci hanno già pensato ampiamente blockbuster come World War Z, Train to Busan, 28 giorno dopo (e sequel) e Io sono leggenda o le stagioni di The Walking Dead. Sta nel mettere da parte e nel modo in cui l’autore del libro prima e il regista poi hanno dato vita ad un’odissea tra le quattro mura di un palazzo, andando di fatto nella direzione opposta a quella di un Rec ad esempio (e relativo remake Quarantena), il cuore pulsante di un progetto che nell’orrore della situazione riesce anche a regalare qualche sorriso con un po’ di sano humour nero.
Francesco Del Grosso