Il fortunato dei fortunati
Prima di addentrarci nell’analisi critica più o meno esaustiva e condivisibile di Escape Room di Adam Robitel, distribuito nelle sale italiane a partire dal 14 marzo da Warner Bros., quantomeno utile è fornire a coloro che della materia in questione sono a completo digiuno un piccolo manuale d’istruzione per meglio capire su e intorno a cosa ruotano il plot, i personaggi, le regole e soprattutto l’ambientazione che animano il film. Al contrario, per coloro che del suddetto menù conoscono le portate principali un ripasso non fa mai male.
Cominciamo allora con il dare una definizione all’escape room: trattasi di un gioco di logica dal vivo nel quale i concorrenti, una volta rinchiusi in una stanza allestita a tema, devono cercare una via d’uscita utilizzando ogni elemento della struttura e risolvendo codici, enigmi, rompicapo e indovinelli. Per poter completare con successo l’esperienza ludica, i partecipanti – che solitamente variano da 2 a 6 persone – devono organizzare la fuga entro un limite di tempo prestabilito, di solito di 60 minuti. L’obiettivo dell’avventura è quindi quello di stimolare la mente, l’intuito, la logica e, non da ultimo, il team building, la collaborazione tra tutti i partecipanti è un fattore indispensabile per risolvere gli enigmi e completare con successo il gioco. Il prototipo generalmente riconosciuto e da cui si è diffuso il genere (da cui sono poi nati anche videogame e show televisivi) è stato creato da Takao Katoe, che iniziò nel 2008 a proporre il “Gioco reale di fuga” ospitandolo in bar e altri locali che venivano riempiti di oggetti e indizi. Ad oggi se ne contano circa 8000 in tutto il mondo, compresa la Polonia laddove un tragico e fatale incidente occorso ad un partecipante ha spinto la produzione e la distribuzione della pellicola del cineasta e attore statunitense a posticipare l’uscita per rispetto della vittima. Il perché è facilmente intuibile dalla sinossi di Escape Room, un thriller psicologico incentrato su sei sconosciuti che si trovano in circostanze al di fuori del loro controllo e che saranno costretti ad usare il loro ingegno per sopravvivere o morire.
Insomma gli ingredienti sono fin troppo chiari almeno quanto il prezzo alto da pagare in caso di vittoria o sconfitta. Il tutto nell’ormai classico thriller psicologico in versione scatologica che ai sali e scendi di tensione e ansia affianca un dosaggio di azione e horror per iniettare nelle vene dello spettatore di turno adrenalina e brividi. Effetti collaterali, questi, che nonostante lo sforzo profuso per tenere incollati alla poltrona non garantiscono alla visione nella sua interezza di soddisfare le esigenze dei fruitori. Quest’ultimi si trovano a fare i conti con una successione di mini-capitoli discontinui in termini di efficacia della resa e coinvolgimento, equivalenti ad altrettante stanze della morte, nelle quali le pedine di turno rischiano di finire carbonizzati, assiderati, avvelenati o schiacciati. Il tutto sotto gli occhi di uno o più carnefici che si divertono a giocare con le vite degli altri. In poche parole l’ennesimo cervellotico e claustrale massacro videoludico che riporta la mente ai vari Cube, My Little Eye, Quella casa nel bosco e Saw, con la sola eccezione che in Escape Room il concetto di home invasion viene del tutto ribaltato perché i sei protagonisti sono inizialmente consenzienti nel prendere parte alla partita, invogliati dal jackpot di 10.000 dollari e ignari dei possibili pericoli, per poi ricredersi una volta compreso che le trappole sono vere e letali. Allo spettatore il compito passivo e sadico di osservare mentre i partecipanti cadono come mosche con lo scorrere dei livelli. Partecipanti che come da schema ampiamente collaudato non si conoscono tra loro, ma che hanno qualcosa in comune che li ha condotti sino a lì, oltre agli immancabili fantasmi, scheletri e traumi nascosti nei rispetti armadi e pronti a riemergere.
Tutto questo, compresi il prevedibile epilogo e l’urticante rilancio che lascia presagire un sequel, ha l’inconfondibile sapore del déjà vu, con Robitel che si è limitato a fare del suo meglio per portare a termine un altro prodotto derivativo come lo sono stati i precedenti impegni dietro la macchina da presa The Taking e Insidious: L’ultima chiave.
Francesco Del Grosso