Inconscio, poesia
Sappiamo tutti quanto sia impresa pressoché impossibile giudicare criticamente opere e carriera di David Lynch. Ciò perché l’Arte di David Lynch ha sempre viaggiato su un binario personale, refrattaria a qualsivoglia accostamento anche nei confronti dei più grandi autori cinematografici. In realtà Lynch ha imposto un proprio linguaggio nell’ambito della Settima Arte. Una inedita tipologia di Cinema che doveva innanzitutto essere decifrata e quindi, in seconda istanza, letta in ogni sua, recondita, sfumatura. Inutile dire che, quasi tutti, anche e forse soprattutto tra gli addetti ai lavori, si sarebbero fermati al primo passaggio. Lynch, nella sua grandezza, ha introdotto un altro modo di fruire un film. Forse l’unico davvero completo. Vederlo, lasciandolo poi sedimentare dentro di sé. Metabolizzandolo eventualmente attraverso l’inconscio. Probabilmente l’unico “altro io” in grado di comprenderlo appieno. Una funzione, definiamola così, appartenente in toto alla nostra anima. Allertata (è un film di David Lynch!) anche nei confronti di opere apparentemente di semplice lettura, quali ad esempio The Elephant Man (1980) e Una storia vera (A Straight Story, 1999). I quali, al contrario, si riveleranno titoli chiave per comprendere, almeno parzialmente, l’infinita poetica lynchiana. Presente anche nelle opere maggiormente tinte di nero, come ad esempio Velluto blu (Blue Velvet, 1986). Opere che disvelarono la scoperta di un mondo (solo cinematografico?) a chi si avvicinava al tempo ad un Cinema bruscamente privato della componente ludica. Un passaggio rituale che, ancora oggi, si ricorda con meravigliosa nostalgia, accompagnati per mano da un “sacerdote” del tutto al di fuori di ogni convenzione.
David Lynch non c’è più. Il tempo tiranno se lo è portato via a settantotto anni di età. Poiché il tempo corre e fugge via, senza alcun rispetto per la genialità. Banale affermare che David Lynch ci lascia in eredità un patrimonio inestimabile di Arte pura. In questo momento di tristezza prevale la consapevolezza di aver perduto un Maestro nel senso più ampio del termine. Di vita, di Cinema. Persino in opere – sempre in apparenza – totalmente criptiche, come il suo ultimo lungometraggio di finzione Inland Empire (2006). Torniamo sempre al medesimo punto: il senso finale, il significato nascosto, è un traguardo. Tutto da conquistare. E se non si riesce, pazienza. C’è ancora tempo per riprovare. Finché il maledetto tempo finirà e, forse, ci apparirà tutto chiarissimo, dal senso della vita a quello della morte. In mezzo le opere, non esclusivamente cinematografiche, di David Lynch. Un artista che ha compiuto, tra le altre cose, l’impresa delle imprese. Sdoganare la propria Arte anche negli angusti confini del piccolo schermo. E in quell’occasione, nel lontano 1990, con crescente successo. Twin Peaks. Chi ha ucciso Laura Palmer? Era già tutto lì. Il caos, il male. Un pessimismo capace di entrare nelle ossa. Personaggi sciroccati, frastornati da una realtà – nella finzione – del tutto incomprensibile. Quasi come gli spettatori di quella soap opera, baciata dalla grazia del genio. Che rimise mano alla serie nel 2017, per quella che resterà, almeno per il grande pubblico televisivo, l’ennesima impronta lasciata da un cineasta capace di superare di slancio l’ultimo orizzonte visibile.
Sappiamo bene che David Lynch avrebbe meritato un saggio amplissimo. Tra gli sdoppiamenti dei personaggi in Strade perdute (Lost Highway, 1997), film dalla cui visione è stato molto difficile riprendersi razionalmente, oppure la Hollywood tra sogno e incubo del quintessenziale Mulholland Drive (2001). Vorremmo davvero ripercorrere i passi di una memoria talmente esaltante che forse va lasciata lì, assopita nell’inconscio. Quasi per una forma di rispetto nei confronti di colui che ha incantato, illuminato, il nostro passato. Anche a costo di farci parecchio male. Ma è un dolore che gratifica.
Daniele De Angelis