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No Other Land

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VOTO: 9

Resilienza

Presentato in anteprima mondiale nella sezione Panorama della 74esima Berlinale, dove ha vinto il premio per il Miglior Documentario e il Premio del Pubblico, No Other Land approda finalmente nelle sale nostrane grazie a Wanted a partire dal 16 gennaio 2025 dopo avere raccolto consensi e riconoscimenti (tra cui European Film Award 2024 come Miglior Documentario e Miglior Film) in decine di festival in tutto il mondo. Riconoscimenti meritatissimi, quelli andati al lavoro potente e coraggioso del collettivo israelo-palestinese (Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor), che però non sono sufficienti a ripagare e a rispecchiare tutto il dolore, la sofferenza e le violenze patite per portarlo a termine. Questo perché nulla è in grado di farlo, nemmeno una possibile anche se difficile – per tutta una serie di motivi politici che non stiamo qui a elencare – conquista dell’Oscar di categoria, specialmente in un momento complicato come quello che si sta vivendo in Cisgiordania, nel quale il sangue è tornato prepotentemente a sgorgare, le tensioni sono esplose nuovamente e la pace sembra ancora un miraggio lontano.
Si parla spesso di film necessari e di quanto questi possano essere utili quantomeno ad accendere i riflettori e/o sensibilizzare il pubblico su situazioni e argomentazioni dal peso specifico rilevante. No Other Land è un’opera davvero necessaria in tal senso. Lo è in quanto testimonianza diretta e inequivocabile degli abusi subiti dalla comunità palestinese dei territori occupati da parte dell’esercito israeliano, in particolare da quella di Masafer Yatta, una regione collinare semi-desertica a sud di Hebron, in Cisgiordania, costituita da una dozzina di villaggi abitati principalmente da contadini e pastori arabo-palestinesi sin dal XIX secolo. Tra di loro c’è anche Basel Adra, giovane avvocato e giornalista, che ha deciso di dedicare la propria vita a documentare la barbarie che lo circonda sin dall’infanzia. Infatti, dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, Masafer Yatta è divenuta oggetto dell’occupazione israeliana fino ad essere dichiarata, nei primi anni Ottanta, area di addestramento militare ‒ la cosiddetta Firing Zone 918 ‒ e fungere da terreno fertile per l’espansione coloniale dello Stato ebraico. Una graduale, subdola e deflagrante attività di espropriazione forzata, legittimata nel 2022 da una sentenza della Corte Suprema di Israele e messa in pratica sistematicamente da più di cinquant’anni, attraverso ordini di demolizione degli immobili e un asfissiante controllo militare della circolazione stradale.
E sono proprio le operazioni di espulsione forzata e tutte le violenze che ne sono derivate che le handycam, gli smartphone e le cineprese del collettivo di registi hanno filmato incessantemente per quasi dieci anni, il contenuto scioccante, scottante ed esplosivo del quale No Other Land si è fatto portatore e custode, ma anche principale testimone dell’accusa in quanto informato dei fatti. Il gruppo di attivisti palestinesi, sostenuto da membri israeliani, documenta la propria lotta contro la missione israeliana raccogliendo prove schiaccianti sul campo, rischiando in prima persona rappresaglie, l’arresto e la vita stessa. Ecco che i filmati realizzati, in gran parte duri e crudi da sopportare, diventano una volta assemblati la carica di un pugno assestato alla bocca dello stomaco, la cui potenza emotivamente e visivamente devastante è capace di togliere il fiato a chi lo riceve. Destinatario è nel suo caso lo spettatore di turno, che nell’arco dei 95 minuti che vanno a comporre la timeline viene raggiunto da una raffica tremenda e violentissima di ganci da ko.
Superata una prima lettura, quella più istintiva e immediata legata al DNA di film di denuncia e d’inchiesta del quale è tra le espressioni audiovisive più alte degli ultimi anni rispetto all’argomentazione trattata, No Other Land merita di essere approfondita anche per altri aspetti che ne aumentano ulteriormente l’importanza. C’è in primis il fatto di essere il risultato di uno sforzo congiunto di un collettivo formato da persone che per provenienza e identità avrebbero dovuto stare dalle due parti opposte della barrica e che invece hanno scelto, prendendosi tutti i rischi del caso, di stare dalla stessa parte. Il ché rende l’operazione un messaggio forte e significativo, che è già di suo politico e al contempo di unione e pace, un po’ come era stato per Tatami di Zahra Amir Ebrahimi e Guy Nattiv, con gli autori che hanno messo le proprie prospettive e visioni artistiche al servizio di una causa comune, combattendo così le ostilità tra i loro popoli attraverso la Settima Arte. Ed è quello che hanno fatto anche i componenti del collettivo israelo-palestinese decidendo di unire le forze per realizzare questo straordinario documentario sull’ostinata sopportazione comunitaria e la radicata resilienza non violenta, mettendo da parte tutto il resto mentre si costruisce un’insolita alleanza. Alleanza che diventa al contempo anche testimonianza di un’amicizia talmente forte da abbattere e superare l’odio e la guerra, quella che ha unito i registi.

Francesco Del Grosso

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