Il secondo tassello DAU
Probabilmente l’aspetto più intrigante della pellicola DAU. Natasha (2020) di Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel è tutto quello che c’è dietro la realizzazione finale. Innanzi tutto partiamo da quel DAU. Esso è l’intitolazione del progetto multimediale artistico che i due autori russi hanno ideato nel 2007, e il cui scopo è quello di realizzare una serie di opere che hanno per base la figura del fisico Lev Landau (1908-1968) e le sue intuizioni scientifiche. Landau, Premio Nobel per la fisica nel 1962, aveva come nickname Dau. Questo immenso progetto DAU, a cui hanno contribuito finanziatori e scienziati, ha reso possibile la costruzione del DAU Institute, che attualmente è il più grande set cinematografico esistente in Europa (12.000 mq). In questo visionario quanto “folle” progetto, i due autori hanno cominciato a girare ininterrottamente per tre anni di fila, realizzando oltre 700 ore di girato, valevole per la realizzazione di 14 pellicole, 3 serie televisive e anche come materiale per installazioni di video performance. La prima trance di questo materiale è andata a comporre il film DAU (2019), biopic su Landau, e la seconda porzione al momento proposta è servita a formare DAU. Natasha.
Prima di approdare al Festival #Cineuropa34, la pellicola era stata in concorso al 70º Festival di Berlino, dove si è aggiudicata l’Orso d’Argento per “l’eccezionale contributo artistico” dato dal direttore della fotografia tedesco Jürgen Jürges (ad esempio era sua la fotografia di Funny Games di Michael Haneke). Effettivamente la messa in scena di DAU. Natasha, tutta realizzata con macchina da presa a mano, e con l’utilizzo di una sola camera, è avvolgente e riesce ad amplificare il senso di disagio e nevrosi che circola in questa pellicola claustrofobica. Persino le due brevi sortite esterne, girate di notte, danno un senso di chiuso e schiacciante. L’opera di Khrzhanovsky-Oertel non segue una drammaturgia lineare, essendo il film costruito su tre blocchi scenografici (mensa, laboratorio, commissariato), come se fossero compartimenti stagni e formassero quasi degli episodi a sé stanti. Mancanza di vera drammaturgia anche perché i due autori non hanno utilizzato nessuna sceneggiatura, e molte scene sono nate al momento, come ad esempio la violenza sessuale subita da Natasha in camera di sicurezza. Sebbene la storia sia ambientata nell’URSS di fine anni Trenta del Novecento, con chiari rimandi alla dittatura comunista (le spie e il commissario), la pellicola sembra uno pseudo racconto distopico del futuro, dove c’è anche l’apparizione di un avveniristico quanto misterioso marchingegno scientifico. Supponibile avvenire anche per la presenza di architetture spigolose, che appaiono in ogni scena (i posacenere della mensa hanno una forma artistica che quasi rimanda al razionalismo fascista). Come sottolinea il sottotitolo che segue il marchio DAU, non dissimile alla costruzione dei titoli facenti parte del movimento Dogma95, questo pezzo filmico è incentrato su tale Natasha, matura cameriera della mensa. È lei l’unico filo conduttore che “unisce” i tre blocchi, e l’attrice che l’incarna, Natalia Berezhnaya, si dedica totalmente al personaggio, dovendo anche fare una scena di sesso vera, oltre alla cruda scena di violenza già citata. DAU. Natasha si rivela tanto prospetto sperimentale (nell’ideazione e nella realizzazione) quanto teorica (nel concetto che vuole portare caparbiamente avanti), ma questo secondo tassello affascina solo per alcune parti, e per la bravura della protagonista, essendo la trama tirata troppo per le lunghe e a volte inutilmente sgradevole.
Roberto Baldassarre