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DAU. Degeneratsia

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VOTO: 8

Uomo o Superuomo?

All’interno della vasta selezione di questa 70° edizione del Festival di Berlino, se c’è un progetto che su tutti spicca per maestosità, per ambizione e per voglia di sperimentare nuovi linguaggi e nuovi modi di concepire la settima arte, esso è indubbiamente DAU. Degeneratsia, per la regia dei russi Ilya Khrzhanovskiy e Ilya Permyakov, presentato all’interno della sezione Berlinale Special.

Un progetto, il presente, che ha visto iniziare la sua lavorazione più di dieci anni fa e che, realizzato nel corso di più di tre anni, con un elevatissimo numero di ore di girato, fa parte di un progetto ben più grande, comprensivo di ben quattordici lungometraggi – ognuno rappresentante un capitolo a sé – tutti ambientati all’interno di un losco istituto – costruito per l’occasione dalla troupe e distrutto immediatamente dopo la fine delle riprese – ispirato alla ex Soviet Academy of Science. All’interno del lungometraggio, tale istituto è diretto dall’enigmatico Dau – ispirato dalla figura del fisico Lev Landau e dalle sue idee di dar vita a una sorta di Übermensch, perfetto simbolo dell’Unione Sovietica.
All’interno del presente istituto, dunque, vediamo un gruppo di scienziati, psicologi e insegnanti preparare un gruppo selezionato di giovani a diventare dei veri e propri super uomini. Ma quanto potrà durare, ancora, una realtà del genere? E, soprattutto, cosa accadrebbe se il suddetto gruppo decidesse, un giorno, di ribellarsi?
I due registi, nel realizzare questo importante lavoro, hanno puntato essenzialmente a mettere in scena la realtà nella sua accezione più pura. Ciò ha comportato anche – e soprattutto – un lavoro fatto principalmente di improvvisazione, durante il quale a ogni attore venivano date indicazioni basilari riguardanti i loro personaggi, insieme al compito di svilupparli seguendo poche ma determinanti direttive. Ciò che ne è venuto fuori è qualcosa di totalmente inaspettato e sorprendente che, oltre a essere letto come un nuovo tentativo di messa in scena, si classifica come un esperimento sociale senza precedenti.
Non viene risparmiato praticamente nulla, nel presente DAU. Degeneratsia. Nemmeno scene di sesso esplicito o sgozzamenti in diretta di maiali. Persino nei momenti in cui vediamo i protagonisti brindare allegramente seduti a un tavolo, possiamo chiaramente notare come gli stessi attori fossero realmente ubriachi al tempo delle riprese. Interessante notare, a tal proposito, come ogni interprete – portato allo stremo delle forze anche grazie a condizioni di lavoro estenuanti e all’obbligo di restare chiusi per molto e molto tempo in un ambiente angusto come lo stesso set – sia a suo modo degenerato (come anche il titolo sta a suggerire), dando ogni volta, in un riuscito crescendo, il peggio di sé.
Tale progetto, dunque, vede nel cinema di finzione la sua rappresentazione più vera. E se a tutto ciò aggiungiamo un continuo uso di camera a spalla, con tanto di frequenti camere a schiaffo, ecco che l’effetto-realtà viene ancor più amplificato.
Lo spettatore, dal canto suo, è completamente rapito da un’operazione del genere. E persino le quasi sei ore di durata riescono a scorrere via in un attimo, senza che nemmeno si abbia l’impressione di essere rimasti per così tanto tempo davanti a uno schermo. E se, soprattutto per quanto riguarda la sua prima metà, il presente lungometraggio impiega il suo tempo a decollare come si deve, ecco che, lentamente, la messa in scena “esplode”. E ci rapisce e annichilisce come mai era capitato prima d’ora.

Marina Pavido

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